Si può comprendere la frustrazione di chi ha sempre alternato disoccupazione a lavori precari di fronte alla discussione sull’articolo 18: che volete che m’importi del diritto alla reintegrazione per chi è assunto a tempo indeterminato, quando io non ho mai visto un contratto più lungo di un anno?
L’indifferenza, o addirittura l’aperta ostilità, che molti giovani esprimono nei confronti della battaglia per il diritto alla reintegrazione è in parte la misura di quanto profondamente è stata interiorizzata, da chi appartiene alla generazione del “pacchetto Treu” e della “legge 30”, la propria condizione di precarietà, al punto da essere percepita come normale e senza alternative: evidentemente un ventennio di propaganda martellante sui benefici e la necessità della “flessibilità” ha lasciato il segno, un segno reso ancora più difficile da cancellare dalla crisi economica peggiore della storia. D’altra parte, questa è una generazione che è stata davvero abbandonata a se stessa, spesso trascurata da sindacati che in più di un’occasione hanno scambiato (magrissimi) aumenti salariali con i più spudorati via libera alle assunzioni a termine, che non hanno mai fatto un’efficace campagna di informazione, che raramente hanno organizzato vertenze combattive e anzi in qualche occasione hanno perfino tentato di imbrigliare lotte radicali partite dal basso (come quella di Atesia, per citare la più famosa).
Questo scetticismo perciò non deve essere snobbato, anche perché contiene un fondo di verità: in effetti non è che mantenendo l’articolo 18 nel sistema attuale, così com’è, siano destinate a migliorare le condizioni di lavoro di precari e giovani. Si tratta piuttosto di spiegare perché, invece, dalla sua abrogazione deriveranno ulteriori peggioramenti anche per chi il diritto alla reintegrazione non l’ha mai visto neppure col binocolo, e di pretendere, uniti, le condizioni che possono davvero incidere sulla vita dei lavoratori privi di tutele.
Forse è più semplice se si prova a capire perché mai il padronato italiano ci tenga tanto a eliminare questo benedetto articolo 18, che in fin dei conti non vieta affatto di licenziare i lavoratori, ma si limita a prevedere sanzioni relativamente elevate per le aziende (sopra i 15 dipendenti) che licenziano senza ragioni, né economiche né disciplinari.
Io credo che i motivi principali siano due. Il primo è immediato: con sanzioni modeste contro i licenziamenti illegittimi, i datori di lavoro si possono sbarazzare senza problemi di chi, magari con più anzianità, guadagna di più dell’eventuale rimpiazzo precario; di chi, per la malattia di un parente o magari la nascita di un figlio, ha necessità (e diritto) di assentarsi di più e quindi produrre di meno; di chi alza la voce per ottenere, che so, condizioni di sicurezza sufficienti per evitare infortuni, o il rispetto di un piano ferie che consenta di trascorrere con la famiglia almeno un paio di settimane all’anno, o altri diritti. Quei diritti che, è giusto ricordarlo, non hanno i precari, alcuni anche formalmente, ma tutti sostanzialmente, perché a chi si lamenta non sarà rinnovato il contratto. Abrogare, per tutti o anche “solo” per i nuovi assunti, in tutto o in parte, l’articolo 18, significa eliminare, o ridurre significativamente, tutti i diritti per tutti quanti. Senza con questo riconoscerne anche solo una parte a chi oggi non li ha.
Ma c’è un secondo motivo, meno immediato ma probabilmente più importante, per cui da almeno vent’anni il padronato punta a distruggere il diritto alla reintegrazione. Il punto è che un posto di lavoro con pochi o nessun diritto vale meno di un posto di lavoro tutelato. Allora, se togliendo il diritto alla reintegrazione si tolgono, o perlomeno si comprimono, indirettamente anche gli altri, eliminare, o depotenziare l’articolo 18 significa togliere valore a quei posti di lavoro.
Posso dimostrarlo con un esempio concreto. Prima della legge Fornero, la sanzione per qualsiasi licenziamento illegittimo in aziende con più di 15 dipendenti era sempre e comunque la reintegrazione nel posto di lavoro oppure, a scelta del lavoratore, un’indennità di 15 mesi di stipendio, oltre al risarcimento di tutti gli stipendi maturati dal licenziamento con un minimo di 5 mesi. Nel 2012 la riforma del governo Monti ha introdotto la possibilità per il giudice di sostituire la reintegrazione (e l’annessa opzione per l’indennità sostitutiva di 15 mesi) con una indennità onnicomprensiva tra i 12 e i 24 mesi di stipendio: il valore economico minimo del posto di lavoro è dunque sceso da 20 (15 più almeno 5) a 12 mesi di stipendio. Nei due anni che sono trascorsi da allora, il valore delle conciliazioni economiche, quelle in cui il lavoratore preferisce monetizzare il proprio diritto al posto per evitare di rientrare là dove sa che gliela faranno pagare, è sceso in misura corrispondente, dalle 15-20 mensilità che si ottenevano prima alle 8-12 di adesso. Badate bene, non parlo solo di accordi fatti in casi di licenziamento illegittimo, ma soprattutto di conciliazioni firmate da precari che avrebbero avuto diritto a un posto di lavoro a tempo indeterminato.
Ma le vertenze di lavoro interessano relativamente agli imprenditori, considerato che, specialmente tra chi ha contratti a termine e a progetto (che prima della riforma dello scorso marzo erano quasi tutti illegittimi), soltanto una parte minuscola porta il datore in tribunale. Il punto essenziale invece è che posti di lavoro che valgono meno finiranno ben presto per essere anche pagati meno. Avete mai fatto caso che i precari hanno in genere uno stipendio molto più basso di chi ha un posto fisso? Suppongo di sì, e immagino sia chiaro che questo è il perché.
Scomparsa per tutti la tutela della reintegrazione, il “mercato” del lavoro si riduce, ancor più di oggi, a un’asta al ribasso in cui vince il posto chi si accontenta di meno e solo fino a quando si accontenta di quel poco, con l’effetto di diminuire gli stipendi al minimo possibile: tutti gli stipendi, compresi quelli già miseri di molti giovani.
Maggiore precarietà non servirà a migliorare le condizioni dei precari, né tantomeno a risolvere il dramma della disoccupazione, ma solo a gonfiare le tasche degli imprenditori. L’unica via per uscire dalla crisi economica evitando una catastrofe sociale è estendere i diritti, in primis quello alla stabilità, e garantire un reddito adeguato a tutti i lavoratori e ai disoccupati, a spese del profitto dei padroni.
Sì, credo che lei abbia sostanzialmente ragione, soprattutto per quanto riguarda le vere motivazioni di ‘pancia’ della classe imprenditoriale italiana.
Le porto la mia testimonianza, di ex-dirigente da ormai 5 anni, quindi di una figura professionale che più vicina così all’imprenditore non dovrebbe essere e che non ha mai avuto la tutela dell’articolo 18.
Non riesco più a trovare un posto di lavoro, nemmeno da temporary manager come si dice, quindi come precario abbastanza ben pagato. Le motivazioni?
Non risiedono tanto e solo nella retribuzione, che comunque sarebbe tagliata del 30-50% rispetto alla mia ultima. Non servono nemmeno gli sgravi contributivi (a quasi totale carico del lavoratore) che l’associazione dei dirigenti è riuscita a spuntare per il biennio 2013-2014.
La vera ragione, che viene negata ma prima o poi salta fuori con chiarezza, è che la quasi totalità dei medi imprenditori italiani vede come fumo negli occhi una persona preparata, laureata, di 40-45 anni e oltre, che si forma di continuo, che crede nel lavoro di gruppo e non nello sfrenato individualismo, che vuole premiare (ed essere premiata) solo per il merito.
Non vogliono in altre parole, un rompicoglioni che venga a mettere il naso nella loro aziendina.
Sembra quasi che, impotenti di fronte ad un mondo che cambia e cambia di continuo, non avendo a disposizione armi come il coraggio, la capacità di innovare (non solo il prodotto ma soprattutto le relazioni organizzative) e la lealtà nei confronti di chi lavora (a qualsiasi livello), si avvalgano della sola leva che conoscono, quella appunto del ‘mercato’ del lavoro.
La classe capitalista italiana è un esempio estremo di parassitismo. Il tanto vantato “rischio d’impresa”, quello che giustificherebbe il fatto che un imprenditore guadagni dieci o cento volte quanto un suo dipendente, in realtà è tutto sulle spalle dei lavoratori. Questo in effetti è il significato di tutte le ultime riforme del lavoro.
La questione credo sia proprio il rischio d’impresa. Il manager preparato in realtà non serve, perchè l’aziendina non ha bisogno di qualcuno che la faccia competere e vincere, che la faccia innovare, che tolga lo spesso velo di miopia che affligge l’imprenditore e che non lo fa investire in ricerca e sviluppo, perchè tanto se le cose vanno male ci pensa lo stato (la collettività) a farsi carico delle vittime, mentre l’imprenditore si rifugia nel suo conto in banca, magari all’estero o intestato a qualche prestanome. L’articolo di Villari ha spiegato bene il danno che questa riforma infligge non solo ai lavoratori, ma ad intere fette della società, ma credo che essa, che entusiasma tanto il presidente di confindustria, sia una mazzata anche per l’imprenditoria italiana, perchè le consente di continuare a tirare a campare scaricandosi dalla responsabilità di fare buona impresa, e dall’onere del rischio. Buona nel brevissimo termine, ma micidiale nel medio (il lungo non ne parliamo nemmeno).
A me sembra che il sistema produttivo che ha in mente, in modo più o meno consapevole, la classe imprenditoriale italiana sia quello dell’Europa dell’est: l’obiettivo, del tutto in linea con le esigenze degli Stati più ricchi dell’Unione Europea, è trasformare l’Italia in un’altra Polonia, magari con lavoratori che, a parità di costo, hanno un po’ di formazione in più. Può anche darsi che nel brevissimo termine una trasformazione di questo tipo consenta di raschiare il fondo del barile e assicurare un piccolo margine di profitto, grazie al taglio del costo del lavoro, ma mi pare evidente che si tratta di una politica estremamente miope anche dal punto di vista del padronato, che sta in sostanza distruggendo competenze e risorse che, sole, sono in grado di rilanciare la produttività.
Dal punto di vista dei lavoratori, ma in generale del resto della società, questa classe imprenditoriale è puramente parassitaria e dovrebbe essere espropriata senza alcun indennizzo perlomeno di tutti i grandi mezzi di produzione. Tanto, di soldi ne hanno già accumulati abbastanza sottraendoli in primo luogo a chi lavora.