Civil War: la guerra civile che non mi aspetto

Ero così incuriosito dal nuovo film di Alex Garland che, per una volta, dal momento che Martina l’aveva già visto all’anteprima, sono andato al cinema da solo pur di vederlo, la mattina di un giorno festivo.

Il film è ambientato in un futuro apparentemente molto prossimo, durante (o meglio alla fine di) una guerra civile che dilania gli Stati Uniti d’America: le Forze Occidentali – curiosa alleanza tra Texas e California – si apprestano a entrare a Washington D.C. con l’intenzione di farla finita con il Presidente Nick Offerman, che ha instaurato un regime autoritario ottenendo un incostituzionale terzo mandato e sciogliendo l’FBI.

Due giornalisti, il reporter Joel e la celebre fotografa di guerra Lee Smith (una strepitosa Kirsten Dunst), si preparano ad affrontare il viaggio da New York fino alla capitale in cerca del grande scoop: l’ultima intervista al Presidente uscente (dal mondo). Con loro anche l’anziano giornalista Sammy, in cerca dell’ultimo grande reportage, e la giovane fotografa Jessie, decisa a seguire le orme della sua eroina Lee.

La storia si snoda lungo le 857 miglia che separano il quartetto da Washington D.C., tra le distese sconfinate dell’America rurale, le foreste verdissime che costeggiano le uniche strade ancora percorribili, villaggi apparentemente fuori dal tempo, ma anche le città in rovina e gli incontri fin troppo ravvicinati con la morte.

Al centro della vicenda, assai più che la guerra civile in sé, c’è proprio il Viaggio, che innanzitutto è il susseguirsi di luoghi e incontri lungo la strada percorsa dai quattro protagonisti.

Al livello della struttura narrativa assistiamo al Viaggio dell’Eroe che ha come protagonista Jessie: seguendo il proprio mentore inizialmente riluttante, attraverso un susseguirsi di prove la ragazza sprovveduta della sequenza iniziale giungerà alla fine a compiere il suo percorso verso la realizzazione di sé.

A un livello più profondo si svolge il Viaggio nel Cuore di tenebra della guerra (ne ha scritto benissimo Marco Lovisato su Cinefacts), degli uomini che la combattono e degli stessi protagonisti che sono chiamati a raccontarla: un tema simboleggiato anche iconograficamente dal costante riferimento al capolavoro di Francis Ford Coppola Apocalypse Now.

È a questo livello che si colloca il messaggio principale del film, che l’autore vuole esprimere attraverso una rappresentazione iper-realistica della guerra e della devastazione materiale e morale che questa porta con sé.

Le immagini corrispondono a quelle che vediamo ogni giorno al telegiornale, da spettatori di eventi lontani. L’effetto drammatico risiede nel tentativo di trasportarle dentro la nostra esperienza, di farci vedere come sarebbe la guerra per noi, nelle nostre città, all’interno delle nostre case.

Si tratta di un messaggio esplicito, veicolato anche dall’accostamento tra le scene di atrocità a cui Lee ricorda di aver assistito in Medio Oriente e quelle di cui è testimone qui, nel cuore della civiltà occidentale. Nelle parole della protagonista (che cito a memoria): Ogni volta che tornavo da un luogo di guerra immaginavo con le mie fotografie di lanciare un monito ai miei concittadini: non facciamolo succedere qui. Ma non l’hanno ascoltato.

La tecnica con cui Alex Garland esprime il concetto che potrebbe succedere anche qui è straordinaria. Immagini, effetti sonori e musica rendono il film un’esperienza immersiva di grande efficacia, in cui gli scatti delle due fotografe (shoot) e gli spari dei soldati (shoot) contribuiscono in misura uguale a portarci all’interno della guerra.

Va detto che l’immaginario a cui attinge il regista – le città distrutte, gli insediamenti deserti, le autostrade invase dai veicoli abbandonati, ma anche i luoghi apparentemente incontaminati e le oasi in cui la vita sembra continuare a scorrere serena – è ampiamente consolidato. Prima ancora che nella grande cinematografia di guerra, è abbastanza evidente che Garland abbia trovato ispirazione in videogiochi post-apocalittici come Days Gone e, soprattutto, The Last of Us: non è forse un caso che il reporter del film si chiami Joel proprio come il protagonista del gioco. E del videogioco, da cui del resto è stata tratta una serie televisiva strepitosa, la pellicola è debitrice anche nel ritmo e nella messa in scena.

Semmai l’aspetto interessante è che in quei videogiochi l’apocalisse è stata scatenata da un virus o da un fungo. In Civil War, il virus sono gli esseri umani. Ma anche questo è un concetto già abbondantemente esplorato.

In definitiva, il film di Garland è certamente un’opera realizzata ottimamente, con il difetto di percorrere una strada già tracciata senza grandi spunti di originalità. Non aiuta che il Viaggio dell’Eroe di Jessie, che scandisce la struttura narrativa del film, sia scolastico al punto da risultare piuttosto prevedibile sia nel suo svolgimento che nel suo epilogo.

Dal mio punto di vista un ulteriore limite è l’assenza – certamente intenzionale peraltro – di un messaggio politico un po’ più profondo rispetto a guerra = brutto e a un accenno di critica generica alla “natura umana” e al paradigma homo homini lupus. La rappresentazione della “seconda guerra civile americana” avrebbe consentito secondo me di volare un po’ più alto.

Garland in effetti non è minimamente interessato a indagare le possibili ragioni di una guerra civile, e quello di una deriva autoritaria del Presidente è poco più che un suggerimento. La guerra, poi, è tutta una faccenda di poteri governativi ed eserciti regolari, in cui apparentemente nessun ruolo hanno i movimenti di massa.

Da questo scenario poco verosimile, forse dettato anche dal pessimismo di fondo che emerge dal film, deriva comunque l’unico aspetto davvero condivisibile – ossia che nessuna delle due fazioni in conflitto sia rappresentata in modo realmente positivo. Non lo è certamente quella del Presidente “usurpatore” Offerman; ma neppure quella rappresentata dalle Forze Occidentali, in cui non a caso convivono la progressista California e il reazionario Texas – a escluderne quindi una chiara connotazione politica.

Curiosamente, ma non sorprendentemente, il film è stato criticato negli Stati Uniti (nonostante il grande successo al botteghino) proprio per questa che è stata interpretata come “confusione politica”.

Scrive ad esempio David Gilbert su Wired USA (traduzione mia): “La tesi di Garland che entrambi i lati sono responsabili è ingenerosa rispetto alla realtà degli Stati Uniti, sia nel 2020 quando Garland ha scritto la sceneggiatura, e ancor di più ora, a pochi mesi da quelle che potrebbero essere le elezioni più decisive nella storia americana.

I commentatori della borghesia liberale americana rimproverano al regista di non aver preso esplicitamente posizione contro Trump (e dunque a favore del Partito Democratico e di Biden), di non aver realizzato una metafora efficace dello scontro in atto fra il grande cattivo e i buoni che lottano per impedirgli di rovesciare le istituzioni (cioè loro). Per questo il film sarebbe “potentially radicalizing“, ossia una possibile fonte di ispirazione per l’ultra-destra razzista e violenta.

Io non conosco le idee politiche di Alex Garland (che peraltro è inglese), ma credo che particolarmente nello scenario politico americano attuale una rappresentazione come quella invocata dai media liberali sarebbe lontanissima dalla realtà.

Certamente Trump è un nemico da combattere, ma non è lo è di meno l’amministrazione Biden che in questi anni ha portato avanti direttamente o condotto per procura quelle stesse guerre e quei massacri da cui la pellicola di Garland vuole metterci in guardia, e che anche sul fronte della repressione interna non ha nulla da invidiare a Nick Offerman: è sufficiente dare uno sguardo alle immagini che provengono in questi giorni dai campus americani occupati, o leggere che nelle ultime settimane sono già più di duemila negli Usa i giovani arrestati per le proteste contro il sostegno americano ai massacri in corso a Gaza.

Ecco: se dobbiamo immaginare una seconda guerra civile americana, è molto più probabile che a combatterla saranno questi – e milioni di altri – giovani, studenti e lavoratori radicalizzati ma a sinistra, una volta che avranno saputo organizzarsi. E allora vedremo i Trump e i Biden, gli Offerman e le “Forze Occidentali”, tutti insieme dall’altra parte della barricata. Personalmente non ho dubbi su chi sosterrò.

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