Satnam Singh e la tragedia del capitalismo

Ogni volta che la morte di un lavoratore riesce a “bucare” il muro dell’indifferenza e a diventare notizia, e sempre che proprio non sia possibile derubricarla a “incidente”, una delle espressioni più utilizzate per descriverla è “tragedia”.

In effetti il modo con cui i media, e ancora di più le istituzioni, trattano i morti sul lavoro ricorda proprio la definizione aristotelica di tragedia: “imitazione di un’azione seria che, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni.

L’ideale a cui tendono i narratori ufficiali è proprio quello della catarsi: gli “spettatori” dovrebbero provare pietà e terrore sul momento, per liberarsene una volta cambiato canale. Maggiore è l’orrore, più intenso e più rapido dovrebbe essere l’effetto.

Mi pare che il racconto dell’uccisione di Satnam Singh, il bracciante indiano mutilato da un macchinario e lasciato morire dissanguato dal padrone nell’Agro Pontino qualche giorno fa, segua questo stesso schema. 

Certamente il modo in cui Satnam Singh è stato ucciso dal suo padrone è particolarmente terrificante. Allo scopo di “sterilizzare” la profonda e meritata indignazione suscitata dalla vicenda sono state messe in atto due strategie retoriche.

La principale è isolare l’uccisione di Singh dal contesto (le centinaia di morti sul lavoro, le leggi sull’immigrazione che ovunque favoriscono condizioni di ricatto e semi-schiavitù), rappresentare i responsabili come mostri disumani – non è difficile, date le circostanze – ricondurla in sostanza a un fatto di cronaca nera.

L’effetto catartico implicito in questa rappresentazione è dato dalla percezione indotta che a essere marcia è una sola mela, il resto del raccolto è sano, o almeno non troppo malato: è sufficiente gettare via quel singolo frutto e non ci saranno problemi. 

È una strategia vecchia, che ormai mostra la corda. Sono troppi gli episodi, troppe e troppo frequenti le “tragedie” che non possono passare inosservate, per poterle considerare davvero fatti isolati.

Ecco allora l’altra strategia, che attraverso una tesi perfettamente simmetrica punta a raggiungere lo stesso obiettivo. Se non si può ragionevolmente affermare che la colpa dei tanti morti sul lavoro sia di singoli padroni disumani, allora è meglio sostenere che “siamo tutti complici”.

Lo ha affermato esplicitamente nei giorni scorsi Oscar Farinetti, fondatore di Eataly e storico sostenitore di Matteo Renzi e del Jobs Act, spiegando che la colpa del caporalato è dei consumatori che vogliono spendere poco, ossia di tutti quelli che non comprano nei suoi negozi.

In modo certamente più elegante, e probabilmente anche con intenzioni migliori, ha espresso un concetto analogo anche la scrittrice Chiara Valerio invocando un sentimento di “vergogna” collettiva legata al “privilegio” occidentale di vivere in mezzo all’orrore senza provarne le conseguenze.

Ovviamente colpevolizzare i milioni di consumatori – a loro volta lavoratori sottopagati – che non possono permettersi di spendere il doppio per acquistare prodotti “etici” è quanto di più ipocrita si possa immaginare.

Ma se non altro, le parole di Farinetti mettono in luce un aspetto reale: a causare le morti sul lavoro è sempre l’esigenza di “spendere poco”.

Solo che il fuoco è, di proposito, sull’obiettivo sbagliato. Anziché sui consumatori, dovrebbe essere puntato su ciascun anello della catena di produzione e distribuzione delle merci.

Lungo tutta la filiera, ogni azienda partecipa alla corsa a “spendere poco”, a risparmiare su tutto ciò che non è strettamente necessario per la produzione: salari e misure di sicurezza in primis.

Le morti sul lavoro non sono altro che un effetto collaterale di un sistema di produzione in cui lo sfruttamento dei lavoratori non è un accidente, ma la regola essenziale e inevitabile.

Un effetto collaterale del tutto fisiologico oltretutto, se pensiamo che alla data del 20 giugno i lavoratori morti sul luogo di lavoro nel 2024 erano 492, non a caso concentrati soprattutto nei settori in cui il margine di profitto è più basso – agricoltura ed edilizia su tutti – ossia quelli che più degli altri si reggono economicamente sullo sfruttamento più brutale della manodopera.

D’altra parte, anche l’idea di una “vergogna” collettiva, per cui saremmo tutti “oppressori”, tanto più colpevoli quanto più inconsapevoli, non solo non conduce da nessuna parte, ma è direttamente funzionale a nascondere la distinzione di fondo tra oppressi e oppressori, sfruttati e sfruttatori.

Fosse anche con l’intenzione di smuovere le coscienze, affermare che siamo tutti sulla stessa barca dei Lovato non serve a nulla perché è semplicemente falso. Piuttosto è vero il contrario: è sulla stessa barca di Satnam Singh che si trovano milioni di lavoratori e di giovani a cui il sistema del profitto per pochi toglie – se non la vita – ogni speranza nel futuro.

È un sistema che, contrariamente a quanto ripetono le istituzioni che in questi giorni sono ipocritamente listate a lutto, non ha al suo interno gli anticorpi per impedire la barbarie perché serve precisamente a perpetuare la barbarie.

Nell’eccellente articolo di Silvia Forcelloni è spiegato con dovizia di dati quanto terribilmente inefficaci siano le norme che dovrebbero contrastare il caporalato, nella quasi totale assenza di controlli, e quanto invece le leggi sull’immigrazione sempre più restrittive favoriscano la creazione di un esercito di lavoratori “invisibili” e perciò ultra-ricattabili.

Per un’azienda che viene sanzionata, centinaia di altre continuano impunite a violare perfino le regole più elementari di civiltà. Del resto la stessa azienda dei Lovato, a quanto pare, era “indagata” da anni per caporalato senza che questo abbia impedito la morte del bracciante.

Per quanto declinato in modi diversi, il ricatto (della povertà, della precarietà, del licenziamento) è la vera cifra di quasi tutto il lavoro salariato, e tutte le riforme degli ultimi quarant’anni l’hanno reso sempre più evidente.

Una delle possibili etimologie della parola “tragedia” la ricollega al “canto per il capro” che dev’essere sacrificato. Sull’altare del capitalismo, gli animali da sacrificare sono i lavoratori.

Occorre rovesciare questo sistema perché la morte terribile di Satnam Singh e delle altre migliaia di lavoratori uccisi sul lavoro non rimanga impunita.

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