In Italia, fino a pochi anni fa, la percezione comune della mafia e dei capi mafiosi somigliava un po’ alla descrizione che il fabbricante di bacchette magiche fa di Lord Voldemort nel primo Harry Potter: un mago che ha fatto “grandi cose, terribili sì, ma grandi”. C’è sempre stata insomma una sorta di aura eroica intorno a questi criminali, dipinti spesso come figure crudeli ma non prive di una certa, sia pur deviata, moralità. E una lunga sequela di film americani come i vari Padrini, Quei bravi ragazzi, etc. (senza assolutamente volerne mettere in discussione la qualità, beninteso) non hanno fatto che alimentare questo mito. Non è un caso se una serie TV che pure ha riscosso ovunque un enorme successo, I Soprano, in Italia è stata trasmessa a spizzichi e bocconi e spesso in terza serata: la sua “colpa” è che rappresenta una famiglia mafiosa nella sua squallida quotidianità, fatta di bassezze, meschinità, violenza gratuita e per nulla eroica. Una serie così non ha appeal sufficiente per un pubblico cresciuto a pane e Padrino!
Il grande merito del romanzo di Roberto Saviano è stato quello di provocare una riflessione un po’ più profonda su che cosa sia la mafia (la camorra), in particolare sotto due aspetti: da un punto di vista economico, quanto la mafia costituisca a tutti gli effetti un ingranaggio fondamentale nell’intero sistema capitalista italiano; da un punto di vista umano, quanto non ci sia nulla di mitico, né tantomeno degno di reverenza e rispetto, nei mafiosi. Per riassumere in uno i due aspetti, Saviano è riuscito a mettere in luce con efficacia straordinaria il fatto che i mafiosi sono sostanzialmente imprenditori ancora più avidi degli altri, disposti a tutto, anche a uccidere, pur di guadagnare denaro. Non c’è nessuna morale, nessun “codice” tranne quello dei soldi.
Il film di Matteo Garrone rispetto al romanzo offre naturalmente, per via dello strumento di comunicazione scelto, un messaggio “parziale”. Soltanto a sprazzi si intravede la dimensione economica della camorra, in particolare nella sotto-trama dello smaltitore di rifiuti (altro che termovalorizzatori!). E’ straordinariamente efficace, invece, la rappresentazione “morale” dei camorristi. Non è un caso, credo, che non compaiano mai i grandi capi, ma tutt’al più capetti di secondo piano: l’intenzione, o perlomeno l’effetto, è trasmettere il messaggio che non si salva nessuno, non ci sono alibi. Non conta il ruolo, non conta l’età: sono altrettanto ripugnanti il “portavalori”, che fa il giro delle case a lasciare la mesata, e il ragazzino che tradisce e fa uccidere la donna che fino a pochi giorni prima gli lasciava laute mance. Non ci sono neppure vittime e carnefici: i due ragazzi esaltati per le armi non sono migliori del capetto che li ammazza a sangue freddo. Di qui forse il titolo: Gomorra, la città in cui non ci sono giusti. Tranne uno: Roberto (ovvio il nome), l’assistente dello smaltitore che ha una crisi di coscienza e decide, sceglie di non essere più complice. La sua decisione rafforza il concetto che tutti sono colpevoli, perché tutti potrebbero scegliere, sia pure con difficoltà.
Quello che manca nel film ed è in effetti solo abbozzata anche nel libro è la possibile soluzione: l’opera di Garrone, anzi, lascia con l’impressione che una soluzione non possa esistere, tanto è profondo il male. Non è così. Quello che è vero, tuttavia, è che un rimedio non esiste all’interno di un sistema capitalista, di cui la criminalità organizzata è un pilastro portante.
P.S. Qualcuno sa per quale motivo, nella sotto-trama del sarto, l’abito lo indossa Scarlett Johansson e non Angiolina Jolie?