Lo so, “Questo non è un post” è un titolo banale per un post su Magritte: per fare contento Pietro, allora, lancio un contest natalizio sul miglior titolo per un post su Magritte, da proporre in commento a questo articolo entro la mezzanotte del 24 dicembre. Il vincitore (a mio insindacabile giudizio) riceverà in premio la riproduzione di un’opera di Magritte in formato cartolina.
Questa di Milano a Palazzo Reale (fino a fine marzo 2009) è la seconda mostra su Magritte che visito, dopo quella allestita a Villa Olmo a Como alcuni anni fa. Dal momento che non ho particolari ricordi di quella, deduco che questa mi abbia colpito molto di più (ma potrebbe anche essere il tempo che scorre…). Scarno di spiegazioni, questo allestimento è molto ricco di opere, disposte tematicamente e commentate soltanto da citazioni dell’autore. Il filo conduttore dovrebbe essere “Il mistero della natura”, in una molteplicità di sensi: il rapporto tra oggetto creato e fenomeno naturale, ma anche quello tra l’oggetto, la sua rappresentazione pittorica e quella linguistica, tra cose, immagini e nomi; e ancora il nesso tra realtà e percezione, e tra realtà e sogno.
Pensieri in libertà (i miei che seguono). L’accostamento inusuale, paradossale nel senso letterale del termine, di realtà differenti crea straniamento della percezione, ed evoca la sensazione di mistero: questo in sintesi il meccanismo coscientemente impiegato e lo scopo coerentemente perseguito dal surrealista Magritte. Nelle sue parole “l’evocazione precisa ed affascinante del mistero consiste in immagini di cose familiari, riunite o trasformate in tal modo che cessa il loro accordo con le nostre idee spontanee. Facendo la conoscenza di queste immagini, conosciamo la precisione e il fascino che mancano al mondo detto reale, dove esse ci appaiono“.
Gli oggetti stridono, “urlano”, anche in rapporto al titolo del quadro che “non è una spiegazione del quadro stesso” ma una parte integrante dell’opera, un elemento necessario del processo di pensiero che dall’immagine e dai rapporti reciproci tra gli oggetti rappresentati apre allo spettatore orizzonti vastissimi e inattesi: ciò che non è rappresentato, ma soltanto evocato, è molto di più e molto più importante dei semplici oggetti dipinti. L’opera è come un sipario (elemento che non a caso ricorre spesso nei dipinti), dietro al quale si nasconde un mondo inesplorato; è un muro che nasconde qualcosa, e ciò che è nascosto è il vero significato da ricercare.
Alcune opere sembrano rebus, con tanto di accostamento di immagine e segni alfabetici o intere parole, e viene pure il sospetto che Magritte si sia divertito a dipingerle pensando allo sforzo dell’osservatore di mettere insieme i pezzi e trovare una “soluzione”. Sono veri e propri enigmi, crittografie figurative che richiedono allo spettatore determinati processi di pensiero per individuare la giusta chiave di lettura e ottenere un senso compiuto (a proposito di Rebus, a quando la seconda lezione di crittografia?). Ma, a differenza che nei giochi, la ragione dell’opera non è la soluzione, bensì lo stesso processo di pensiero, lo scopo è aprire la mente in direzioni inesplorate, verso il mistero, appunto, dal noto all’ignoto.
Dai meandri della memoria, e delle mie modestissime reminiscenze di storia della filosofia, emerge il ricordo di Ludwig Wittgenstein, ma non saprei dire se sia a proposito. Wikipedia, sia pure in forma di abbozzo, mi conforta: “ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda, ordine? Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo segni, parole, proposizioni. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati” (Ricerche filosofiche, par. 23). E anche: “O inventare nuovi usi per le parole, usi talvolta assurdi, per aiutare ad allentare la stretta delle forme abituali del linguaggio” (Tractatus logico-philosophicus, 4.002).
Inventare nuovi usi per gli oggetti, usi talvolta assurdi, per aiutare ad allentare la stretta delle forme abituali del pensiero: è esattamente ciò che fa Magritte (e che riconosce di fare: che peccato non avere il catalogo con tutte le citazioni!).
Crittografie, giochi linguistici: l’arte però ha qualcosa in più, ha il potere di trasmettere emozioni, di rappresentare sogni. “Se il sogno è una rappresentazione della realtà, anche la realtà talvolta è una rappresentazione del sogno“, scrive Magritte, e mi capita in mano uno dei miei romanzi preferiti, I Fiori Blu di Queneau: stessa epoca, analogo il meccanismo: le parole in gioco (come negli Esercizi di Stile) per creare suggestioni, due storie parallele apparentemente semplici, prese ciascuna per sè, ma accostate, intrecciate in modo tale da farne scaturire un senso tutto diverso e tutto nuovo. Non si può, ragionando, stabilire quale delle due sia il sogno dell’altra, ma ciò che conta non è la spiegazione razionale, ma quel di più misterioso e sconosciuto che nasce dall’accostamento.
Oppure, chissà, quelle immagini sono messe lì a casaccio, e il buon Magritte si sbellica dalle risate nella tomba a immaginare i deficienti che cercano con qualche pretesa di cavarne un senso.
Se quello non è un post allora questo non è un commento.
Seconda lezione in arrivo via mail 🙂