La scorsa settimana ho avuto l’onore di ascoltare Valerio Evangelisti alla presentazione del suo ultimo romanzo, Tortuga, alla Feltrinelli di Milano in Corso Buenos Aires. E’ seguita una splendida, ancorché esosa cena con il Magister in persona e gli amici della sua mailing list. Qui potete vederne le foto (alcune delle quali inadatte ai minori di età)
Da tempo avrei dovuto scrivere quassù la mia personale recensione del romanzo, dopo averne lungamente discusso in lista (ho una cartella di posta dedicata esclusivamente a Tortuga, e contiene oltre 200 mail). Mi scuso del ritardo, e provvedo, riprendendo parte di quanto avevo scritto allora, e cercando di evitare spoiler.
I romanzi di Valerio Evangesisti, tra i molti pregi, ne hanno uno che mi fa impazzire: il contorno storico nel quale sono ambientati non solo è descritto con una precisione eccezionalmente meticolosa, ma “entra” nella narrazione diventandone uno dei protagonisti. Tortuga non fa eccezione, e la circostanza di aver letto il romanzo pochi giorni dopo l’esame di Storia moderna in cui avevo studiato (anche) quel periodo me l’ha fatto apprezzare ancora di più.
La storia è ambientata alla fine del Seicento, l’epoca d’oro dei pirati della Tortuga al formale servizio del Re di Francia Luigi XIV, i cosiddetti Fratelli della Costa, in procinto di compiere la loro (ultima?) grande impresa sotto la guida del tetro Capitano De Grammont. Il protagonista, l’ex gesuita portoghese Rogerio, viene catturato e impiegato a forza come nostromo su una delle navi, condotta dal brillante Capitano Lorencillo. Per conoscere la trama vera e propria, però, leggetevi il libro.
Più di tutto ho apprezzato quella che per me è l’idea forte e attualissima del romanzo, che emerge, più che dalla trama, dalla descrizione del modo di vivere e di intendere la vita dei pirati, e viene sottolineata a più riprese in particolare dai due medici di bordo, che fanno in un certo senso la “morale della favola”.
I pirati sono effettivamente l’alba di una società nuova. Quale società? Quella capitalista, in un mondo senza regole e senza freni che rispetta soltanto la concorrenza e la legge del più forte. Nel 1685, prima della rivoluzione industriale, in un epoca ancora dominata da valori feudali, dalla religione istituzionale, dai re per diritto divino, era un futuro decisamente di là da venire, e del tutto inaccettabile per il Potere costituito. In un certo senso, quel futuro è adesso, nell’epoca della deregolamentazione e della totale libertà del mercato. I predoni – pardon, padroni – di oggi sono spesso credenti, vanno in Chiesa e pregano e rendono omaggio all’autorità come i pirati alla Isla de la Vaca, in una scena particolarmente efficace. Ma proprio come quei pirati lo fanno solo per rispetto formale delle poche regole rimaste, e per il resto non esitano a utilizzare ogni mezzo per arraffare il maggior bottino possibile.
Escludo che Valerio si immedesimi, o voglia proporre la società dei pirati come modello, in ogni caso sicuramente non lo è per me, al di là della simpatia per questo o quel personaggio particolarmente riuscito e affascinante (De Grammont in particolare: un vero titano, un personaggio tragico e che per certi aspetti mi ha ricordato Don Chisciotte). L’anarchia dei pirati rappresenta bene l’anarchia del mercato, secondo me. Ed è pur vero che non è certo peggio della finta civiltà delle corti europee del Seicento.
Il legame tra pirati e capitale peraltro è più stretto di quanto non si pensi: la Banca d’Inghilterra fu fondata nel 1694 dietro proposta di tale Willliam Paterson, spregiudicato commerciante con base a Panama, con stretti legami con la pirateria. A quanto sembra il modello proposto seguiva da vicino quello di cassa di crediti in uso tra i pirati di Port Royal.
Sarà una mia interpretazione campata in aria, o ha un fondamento nel romanzo? Leggetevi il libro, e giudicherete voi.