Sono in quel 77% di elettori che non è andato a votare per il referendum meno partecipato della storia repubblicana. Come è noto, si votava per modificare la legge elettorale in senso bipartitico, vincolando sia alla Camera (quesito 1) che al Senato (quesito 2) l’attribuzione del premio di maggioranza alla singola lista – e non più alla coalizione – che conseguisse la maggioranza relativa dei voti. In questo modo, in ipotesi, un partito che avesse il 25% dei voti avrebbe potuto tranquillamente governare da solo, senza sostanzialmente dover rendere conto del proprio operato al restante 75% dell’elettorato. Una riedizione in salsa berlusconiana della famigerata “legge truffa” del 1923, che consentì a Mussolini di conquistare e mantenere il potere praticamente senza opposizione (certo, dopo aver massacrato con le squadracce tutte le organizzazioni del movimento operaio). C’era anche un terzo quesito, per la verità anche abbastanza condivisibile, per impedire le candidature multiple in più circoscrizioni: ma non è bastato a spingermi fino al seggio.
Nell’istante in cui è apparso chiaro che non sarebbe stato raggiunto – e di molto – il quorum, i principali leader di PdL e PD, unici beneficiari dell’eventuale vittoria, hanno fatto a gara per sganciarsi e scendere dal carro referendario: ieri sera sembrava quasi che il referendum si fosse proposto da solo. La verità è che avrebbe fatto molto comodo ai due partiti un sistema elettorale che escludesse dalla competizione ogni altra forza, e soprattutto quelle di sinistra. E avrebbe fatto comodo soprattutto a Confindustria, che di fatto sponsorizza entrambi i partiti un po’ come nell’automobilismo certe case forniscono i motori a più scuderie. Più ancora di oggi, infatti, e potenzialmente a tempo indeterminato, una riforma elettorale nel senso inteso dai referendum avrebbe consentito a due forze sostanzialmente indistinguibili sotto il piano delle politiche economiche di governare senza opposizione, e con una dialettica interna ridotta alla mera forma: sarebbe stato il trionfo della Governabilità, dove il termine significa la libertà di introdurre a piacimento ogni possibile limitazione ai diritti delle fasce deboli della popolazione, senza nessuno che rompa le scatole. In sostanza, la libertà di trasferire ulteriori ricchezze dalle tasche di chi lavora a quelle di chi “dirige” il lavoro.
Dunque, se parlare di vittoria sarebbe inappropriato, si tratta perlomeno di un pericolo scampato. Per il momento: già ieri esponenti di entrambi gli schieramenti – primo tra tutti D’Alema – ventilavano una possibile riforma bipartisan, se non subito del sistema elettorale, perlomeno del sistema referendario, mirata ad abbassare il quorum in modo significativo. Si può star certi che i poteri forti di questo Paese (di tutti i Paesi capitalisti, in effetti) non abbandoneranno la preda né presto né facilmente.
Intanto, un altro piccolo segnale di come gli Italiani si stiano disamorando di questi due partiti sempre meno dissimili tra loro – ed entrambi sempre più incapaci di dare risposte convincenti ai cittadini – viene forse dai ballottaggi delle elezioni amministrative, che hanno visto un astensionismo record, in media di dieci punti superiore al turno di ballottaggio precedente.
Esulta il Partito Democratico perché ha tenuto un po’ più del previsto (pur perdendo la Provincia di Milano), ma quanti si illudono della possibilità di “spostare a sinistra l’asse del PD” dovrebbero meditare su un paio di dati: primo, il PD ha vinto in molti casi grazie all’appoggio decisivo dei fondamentalisti cattolici dell’UDC – fino a ieri nel campo della Destra; secondo, in città come Padova e Firenze hanno vinto candidati piddini sì, ma sostanzialmente di destra: Zanonato, il sindaco sceriffo che aveva edificato il “muro della vergogna”, e Renzi, ultracattolico e moderato, tanto da essere avversato perfino dai vertici del suo partito. Per non parlare di Penati, sconfitto a Milano per pochi voti dopo quindici giorni in cui non ha fatto altro che inseguire l’avversario con i suoi stessi beceri argomenti.
C’è poco da stare allegri. Piuttosto, è il caso di costruire in fretta un’alternativa credibile e di sinistra a questi personaggi e ai loro partiti.