Qualche giorno fa passando di fianco a un’edicola avevo casualmente posato lo sguardo sulla locandina della rivista Business People. Me ne sarei dimenticato dopo pochi secondi, se non fosse che un titolo aveva catturato la mia attenzione: “Il modo giusto per licenziare”. Per un paio di giorni a ogni edicola ho avuto la tentazione di comprare la rivista, ogni volta frenato dalla sensazione di fare una cosa sporca, come spiare dal buco della serratura. Finché ieri ho preso il coraggio a due mani e, più imbarazzato che se avessi dovuto chiedere un “giornale di donne nude”, ho domandato della “rivista di quella locandina lì”. Tre euro e cinquanta è costata!
Per far fruttare l’investimento, mi sono costretto a leggerla dall’inizio alla fine. È un modo – ho pensato – per capire di più sulla psicologia della classe imprenditoriale italiana: che cosa pensa il padrone di un’azienda? Come vive la sua condizione? Come affronta la crisi? Che cosa gli interessa? E soprattutto, qual è il modo giusto di licenziare?
Partiamo da qui. L’articolo porta la firma autorevole (?) del presidente di un’associazione di direttori delle risorse umane, ed è un elenco di precetti per rendere più “umano” il licenziamento (altrui), e probabilmente per tenere pulita la coscienza (propria). Una specie di manuale del buon imprenditore, insomma. Si va dal “mai licenziare di venerdì” (bisogna aggiornare il detto: “di venere e di marte, non si sposa non si licenzia e non si parte”) a “permettere alla persona di andare subito a casa e tornare il giorno dopo a ritirare gli oggetti personali”, fino alle questioni davvero importanti: “assegnate il prima possibile gli incarichi del licenziato a un altro dipendente” e soprattutto “non entrate nei dettagli sui motivi del licenziamento con gli altri dipendenti: in caso di causa legale ogni cosa che direte potrebbe ritorcersi contro di voi”. Ecco dove andava a parare. Si vede però che i padroni di quelli che vengono in studio da noi per impugnare il licenziamento non leggono Business People!
Non mancano altre chicche. In un trafiletto intitolato “C’è un’Italia ad alta velocità” si annuncia con soddisfazione la realizzazione dell’Alta Velocità sull’asse Torino-Milano-Salerno, e solo di sfuggita si riporta lo scontento delle associazioni dei consumatori per l’aumento dei costi e il peggioramento dei servizi (di questo tema si occuperà presto l’Avvocato Laser): sarà forse frutto di preconcetti, ma la sensazione è che lo scontento di centinaia di migliaia di consumatori “normali” sia un prezzo accettabile per consentire a pochi riccastri di andare da Milano a Roma in meno di tre ore.
Interessante come il rapporto costi sociali – benefici per pochi sia affrontato anche in un altro commento, sul decennale del meeting di Seattle del WTO: dopo aver osservato che la crisi rende più difficile realizzare i programmi di liberalizzazioni e deregulation, si spiega che i benefici portati dal completamento del programma di Doha sono stimati in 96 miliardi di dollari, di cui 16 per i Paesi in via di sviluppo, sia pure al prezzo di alti costi sociali. Per chi sono allora questi benefici? La risposta è superflua, e probabilmente anche la domanda.
C’è anche un articolo sulle “10 parole per il 2010”, una specie di rassegna preventiva dei tormentoni economico-politici dell’anno appena iniziato, in chiave sarcastica. Lo stile è quello di Matteo Bertani, per intenderci, ma se non altro questi guru dell’imprenditoria nostrana sono più onesti del ceto politico che li rappresenta, almeno quando parlano tra di loro: non credono alla favola della ripresa economica né ai paroloni (innovazione, meritocrazia, riforme) che riempiono la bocca dei governanti.
Non credono neppure – e in questo hanno una percezione assai più equilibrata e condivisibile rispetto a quella di tanti commentatori “di sinistra” – al mito di Obama, fedelmente rappresentato come il Presidente USA che ha regalato fiumi di denaro ai banchieri per consentire loro di continuare a fare i propri comodi, che a dispetto del Nobel per la Pace ha aumentato il numero di soldati americani in Afghanistan (per non parlare di quelli inviati ad Haiti dopo il terremoto), che nonostante i proclami non ha saputo evitare l’aumento della disoccupazione fino a oltre il 10%.
La sorpresa più grande è alla penultima pagina dedicata, dopo servizi su penne stilografiche da collezione e su barche “che si possono solo sognare”, ai libri: il primo consiglio di lettura è per il bellissimo Altai, sequel dell’ancora più splendido Q, entrambi scritti dal collettivo anarcoide Wu Ming: probabilmente i lettori di Business People si immedesimeranno con Yossef Nasi, il ricco e potente ebreo, piuttosto che con Ludovico il Tedesco, difensore dei deboli e delle cause perse…