Hanno vinto i SI, come si sapeva. Quello che non si sapeva era che i NO sarebbero stati così tanti, più di un terzo dei lavoratori dello stabilimento FIAT di Pomigliano. Ce l’avevano messa tutta Marchionne & soci (e nei soci mettiamoci anche il Governo, gran parte dei mezzi d’informazione e i sindacati firmatari dell’accordo) per ottenere un plebiscito che spazzasse via ogni resistenza alla nuova era di “produttività a ogni costo”: avevano organizzato sabato scorso il patetico corteo pro-accordo (una ridicola quando squallida imitazione della “marcia dei quarantamila” del 1980); avevano impedito ai delegati FIOM di tenere assemblee in fabbrica per spiegare le ragioni del NO; infine, ciliegina sulla torta, era stata ventilata l’ipotesi (fantascientifica per la verità, specie sotto l’aspetto giuridico) di un “piano C” elaborato da Marchionne in caso di mancato accordo: chiusura dello stabilimento di Pomigliano e riapertura, contestualmente e nel medesimo luogo, di una nuova società che non avrebbe aderito al contratto nazionale e avrebbe riassunto unicamente i lavoratori disposti ad accettare le clausole capestro.
Ma il plebiscito non è arrivato, anzi: hanno votato contro l’accordo circa il doppio degli operai che alle ultime elezioni della rappresentanza sindacale hanno votato per la FIOM. FIOM che nel frattempo è tornata dopo anni il primo sindacato nello stabilimento FIAT di Melfi nelle consultazioni per l’elezione della RSU nei giorni scorsi.
Che cosa significa? Sono forse pazzi questi lavoratori che scelgono consapevolmente di mettere a rischio il proprio posto di lavoro, piuttosto che sottostare alle condizioni imposte dall’azienda? Io non credo. Un voto tanto consistente, nonostante le pressioni inaudite, è l’ennesima dimostrazione della brutalità delle condizioni di lavoro che la FIAT vorrebbe imporre ai lavoratori. È anche un segno, incoraggiante, del senso di responsabilità di tanti operai che si sono evidentemente resi conto che il “progetto Pomigliano” non è che l’apripista per un nuovo modello di relazioni industriali basate sul ricatto e sullo sfruttamento indiscriminato.
Questa è la vera importanza della partita che si gioca in Campania, e che il risultato del referendum consente di non considerare ancora chiusa. Da un lato si sente dire che è necessario aumentare la produttività per non uscire dal mercato internazionale, e che in quest’ottica è necessario che i lavoratori rinuncino a parte dei propri diritti. Ma la questione è: fino a che punto? Quali sono i diritti minimi a cui non si può rinunciare? Le leggi e i contratti collettivi, finora, hanno fissato questo punto stabilendo le tutele indispensabili a una condizione di vita e di lavoro dignitosa. Ogni rinunzia rispetto al livello di diritti acquisito è anche una rinunzia alla dignità del proprio lavoro e, in effetti, alla propria stessa umanità: proprio per questo ruolo di salvaguardia non è consentito applicare a livello individuale condizioni peggiori di quelle stabilite a livello collettivo.
Questo della FIAT è il primo tentativo di far passare il principio opposto. Non a caso tanta enfasi hanno dato all’accordo Confindustria e Governo. Non a caso, dall’altra parte, tante manifestazioni di solidarietà sono arrivate ai lavoratori di Pomigliano in questi giorni da parte degli operai degli altri stabilimenti FIAT in primo luogo, e da tante altre realtà, in cui si comprende senza difficoltà che se passa Pomigliano, “i prossimi siamo noi”. E infatti già “accordi” simili sono stati proposti in altre fabbriche, come la Indesit di Bergamo, con analoghe minacce di spostare altrove la produzione in caso di mancata firma.
Per questo il risultato del referendum è significativo, nonostante si tratti pur sempre di una sconfitta che formalmente autorizza la FIAT ad applicare l’accordo. Significa che i rapporti tra le classi non sono ancora così sbilanciati da far passare questo nuovo modello di relazioni industriali senza che nessuno batta ciglio. Significa che una parte consistente dei lavoratori italiani non è disposta a rinunciare tanto facilmente ai propri diritti e a farsi sfruttare oltre i limiti.
Più in generale, magari per molti a livello più o meno inconsapevole, significa che viene messo in discussione un modello economico in cui la produttività si ottiene soltanto a costo di un maggiore sfruttamento delle risorse umane. Del resto, a ben considerare, è emblematico del declino dell’economia capitalista il fatto che ad aumentare la produttività non siano conquiste tecnologiche o scientifiche bensì, brutalmente, lo sfruttamento più intenso degli esseri umani. Quale alternativa si pone? Investire sulla ricerca per produrre meglio, non semplicemente di più: soprattutto, per produrre ciò che serve realmente alla società e non soltanto ciò che serve a realizzare i maggiori profitti possibili per pochi. *Esistono* progetti di riconversione industriale, che portino a Pomigliano, invece della Panda a benzina/diesel, la produzione di veicoli ecologici e delle relative strutture di supporto (soltanto per rimpiazzare il parco-vetture pubblico ne occorrerebbero centinaia di migliaia) in grado di mantenere i posti di lavoro, sostenere la ricerca e lo sviluppo di soluzioni compatili con l’ambiente. Soltanto un settore pubblico che si comportasse davvero da garante della collettività potrebbe accollarsi questo genere di investimenti, che nessun privato sosterrà mai dal momento che producono meno profitto, perlomeno nell’immediato: come disse Henry Ford, “Sono in affari per fare soldi, non per fare auto”. L’ipotesi della gestione pubblica di un’azienda come la FIAT non è poi così assurda se si pensa che, con i soldi versati a fondo perduto nel corso degli anni, lo Stato avrebbe potuto acquistarla una ventina di volte.
La resistenza di Pomigliano mostra che non appena le condizioni lo consentiranno (anche questa crisi finirà) ci sarà un enorme potenziale per l’avvio di una stagione di lotte radicali, che potranno ribaltare i rapporti di forza attuali. Nostro compito è prepararci a quel momento e fare il possibile perché quel potenziale si accumuli e si conservi adesso, e non vada disperso allora. Lo sciopero generale di venerdì arriva al momento giusto.