Il Governo agonizzante cerca di piazzare i suoi ultimi colpi di coda per risparmiare un po’ di fatica al governo che verrà: Collegato lavoro, Statuto dei lavori, Ddl Gelmini, tanto per fare alcuni esempi. Speriamo che vada presto al governo il Partito Democratico! – penseranno alcuni ottimisti (e i dirigenti del Partito Democratico).
Personalmente, sono poco persuaso da questo ottimismo (e per nulla persuaso dai dirigenti del Partito Democratico). Non è prevenzione nei confronti del PD, la mia, quanto il timore che realizzi davvero quello che sembra essere il suo programma in materia di lavoro, elaborato in questi anni attraverso una serie di proposte più o meno organiche di riforma dell’intera disciplina dei rapporti di lavoro. Del ddl Nerozzi (ddl 2000), modellato sul progetto di Tito Boeri e Pietro Garibaldi e imperniato sull’introduzione del cosiddetto “Contratto Unico d’Ingresso”, ho già scritto in passato. Fondato sugli stessi concetti ma di più ampia portata è il disegno di legge n. 1873, redatto dal Senatore Pietro Ichino e intitolato Codice dei rapporti di lavoro. Vale la pena darci un’occhiata.
Ridurre le garanzie aiuta i precari?
La proposta contiene un riordino completo dei rapporti di lavoro, improntato al principio per cui deve essere il più possibile ridotta la distanza tra le tutele dei lavoratori stabili e quelle dei precari. Tutto bene, naturalmente, se non fosse che questo obbiettivo viene perseguito non elevando le tutele dei precari, ma abbassando quelle degli stabili. I promotori del disegno di legge sono infatti convinti che
“L’eccesso di pervasività della regolamentazione finisce col porre fuori legge l’accordo tra datore e prestatore (per aspetti di dettaglio del rapporto di lavoro o per rapporti del tutto marginali) e col complicare la vita a entrambe le parti in novantanove casi, per prevenire la possibilità della distorsione che, in un caso su cento, può verificarsi per il comportamento di un imprenditore scorretto. … In linea generale il vero rimedio può e deve essere costituito da un rafforzamento del potere contrattuale del lavoratore, attraverso l’ampliamento della sua opzione exit, cioè dall’alternativa occupazionale rispetto all’azienda dove egli è (o si sente) trattato peggio del dovuto”.
In soldoni, secondo Ichino & co., il sistema dei rapporti di lavoro funzionerebbe meglio se i datori – che 99 volte su 100 si comportano in modo corretto (??) – fossero lasciati liberi di trattare da pari a pari con i loro dipendenti senza la fastidiosa intromissione delle regole che stabiliscono limiti e condizioni per l’utilizzo di contratti variamente precari. La vera tutela per il lavoratore sarebbe poter scegliere di andarsene, non avere diritto a restare.
Ora, non so in quale pianeta viva il Professor Ichino (ma so che mestiere fa, oltre al Parlamentare: difende grosse aziende contro i loro dipendenti). Sulla Terra, in Italia, nel 2010 (ma è così ovunque e da sempre, a ben guardare) se appena appena si crea una smagliatura nelle regole che garantiscono la tutela dei lavoratori si può scommettere che in men che non si dica l’intera classe padronale, più o meno abilmente consigliata da uno stuolo di consulenti del lavoro, se ne approfitterà per risparmiare fino all’ultimo centesimo possibile sul costo del lavoro, in cambio di… niente. Nessuna tutela alternativa, nessuna “opzione exit”, soltanto l’ennesima perdita di diritti e di benessere per i lavoratori.
Ma scendiamo nel dettaglio (mi rendo conto che questo post sarà per alcuni noioso: prometto di parlare di cose più divertenti quanto prima).
Salario minimo e gabbie
Come già il Ddl Nerozzi, anche Ichino propone che venga fissato per legge un salario minimo. Di per sé si tratta di una proposta neutra: naturalmente dipende da quali sono i minimi che vengono fissati. Oggi a fissare i salari minimi sono i contratti collettivi di lavoro (di cui Ichino è strenuo avversario) che in teoria dovrebbero assicurare, più di un decreto del Presidente della Repubblica, la rappresentanza degli interessi dei lavoratori. Ma nel progetto di Ichino si dice qualcosa in più, ossia che “il decreto può disporre compensi minimi differenziati in relazione a differenze rilevanti degli indici regionali del costo della vita”. È un tentativo di introdurre, sia pure in modo da risultare quasi inosservato, le gabbie salariali: regione che vai stipendio che trovi. Il modo migliore per approfondire il solco tra lavoratori del Nord e del Sud, creando competizione tra i poveri a esclusivo vantaggio delle imprese.
Liberi di essere licenziati
Veniamo al cuore della proposta: la nuova disciplina dei contratti a termine e dei licenziamenti. “La prima assunzione del lavoratore alle dipendenze di un’azienda può avvenire con contratto a termine”. Sempre, senza condizioni e senza limiti. Punto. È una (contro)rivoluzione colossale rispetto al sistema attuale in cui la regola è che il contratto sia a tempo indeterminato. E la famosa “opzione exit”? Eccola qui: “qualora il contratto, durato più di sei mesi, cessi senza conversione in rapporto a tempo indeterminato, al lavoratore è dovuta un’indennità di cessazione” come se si trattasse di un licenziamento senza art. 18. In pratica, il datore di lavoro, anche quello con più di 15 dipendenti potrà *sempre* licenziare (più precisamente, “non convertire in tempo indeterminato) in sede di prima assunzione, rimettendoci poche migliaia di euro laddove oggi dovrebbe reintegrare il lavoratore e pagare un risarcimento ben più consistente. Un bell’affare, eh? Ipocritamente, questa innovazione viene spacciata per un modo di riequilibrare le tutele tra lavoratori stabili e precari: ma mentre è palese ed enorme la perdita per gli stabili (comunque ancora oggi la grande maggioranza dei lavoratori!), il guadagno per i precari è risibile, quattro soldi, unicamente quando il contratto originario era più lungo di sei mesi e soltanto per il primo contratto. Dal secondo contratto a termine in poi, sopravvive infatti una disciplina molto simile a quella di oggi – con la solita aggiunta, cara a Ichino che ha tra i suoi clienti diversi grandi teatri milanesi, dell’assunzione per la stagione teatrale tra i casi in cui il contratto a termine è sempre ammesso.
A proposito di Collegato lavoro: se è vero che i Parlamentari del PD hanno votato contro, va detto che nel Ddl Ichino è contenuto lo stesso termine di decadenza per l’impugnazione dei contratti a termine, 60 giorni dalla cessazione del rapporto. Le conseguenze le sappiamo già: ancora una volta, favorire l’impunità dell’abuso contando sulla ricattabilità dei precari.
Addio Articolo 18!
Per l’impugnazione in giudizio del licenziamento sono invece previsti termini ancora più brevi che nel Collegato lavoro: 120 giorni invece di 270 dall’impugnazione stragiudiziale. Ma è il minore dei mali.
Per quanto riguarda il licenziamento disciplinare (per giusta causa o giustificato motivo soggettivo), quando venga riconosciuto illegittimo il Giudice sceglierà se ordinare la reintegrazione, con l’aggiunta di un modesto risarcimento, o stabilire un risarcimento più cospicuo ma senza obbligo di reintegrazione. Anche nel caso in cui il Giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro, il datore – e non più il lavoratore, come prevede oggi l’art. 18 – potrà comunque scegliere di pagare l’indennità superiore in alternativa alla reintegra. Naturalmente, tutto questo vale soltanto per le aziende con più di 15 dipendenti. Per quelle più piccole, come oggi, vale la tutela “obbligatoria”, ossia il solo pagamento di un risarcimento.
Più morbide ancora le conseguenze in caso di licenziamento non disciplinare. In pratica, può essere impugnato soltanto nel caso in cui il lavoratore abbia oltre vent’anni di anzianità oppure quando il lavoratore denunci “la sussistenza di motivi discriminatori determinanti, o motivi di mero capriccio, intendendosi per tali motivi futili totalmente estranei alle esigenze economiche, organizzative o produttive aziendali”. Per il resto, il licenziamento diventa di fatto libero salva la corresponsione di un’indennità proporzionale alla durata del rapporto (un mese dell’ultimo stipendio per ogni anno), dimezzata per le aziende con meno di 16 dipendenti.
Ecco l’opzione exit!
Per le sole aziende con più di quindici dipendenti, in caso di licenziamento di lavoratori con almeno due anni di anzianità, è previsto l’obbligo di corrispondere un trattamento complementare dell’indennità di disoccupazione per i successivi tre anni – salvo che nel frattempo il lavoratore non abbia trovato altre fonti di reddito e con l’obbligo per il licenziato di sottostare a tutta una serie di iniziative di “formazione e riqualificazione professionale” con tanto di orario fisso obbligatorio corrispondente al precedente orario di lavoro: di per sé una buona idea, se non fosse che gli obblighi per il lavoratore sono tanti e tali che è addirittura prevista la possibilità di recedere senza preavviso. Va ricordato poi che il trattamento economico andrebbe a integrare – e non ad aggiungersi – a quanto già previsto e coperto dall’INPS, verosimilmente con gli stessi tetti effettivi.
Una proposta che piace a tutti, tranne che ai lavoratori
Non è un caso che proposte come questa ricevano il plauso di tutti i settori del Parlamento. Lo stesso progetto di Statuto dei Lavori abbozzato dal Ministro Sacconi si fonda sugli stessi principi, sui quali il Senato ha espresso consenso pressoché unanime non più tardi di un mese fa: un governo tecnico che succedesse a Berlusconi potrebbe approvare una riforma su queste linee in tempi brevi. E se si andasse al voto, dovremmo sostenere chi propone questa politica? Io non credo proprio.