Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò e Giuseppe Demasi: questi i nomi dei sette operai morti a seguito dell’incendio nello stabilimento Thyssen-Krupp di Torino la notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007.
Ieri, dopo un processo durato oltre tre anni, la Corte di Assise di Torino ha accolto le richieste del Pubblico Ministero e ha dichiarato Harald Espenhahn, Amministratore Delegato dell’azienda, colpevole di omicidio, condannandolo per questo motivo alla pena di 16 anni e mezzo di reclusione.
Per la prima volta in un caso di “morti bianche”, il reato riconosciuto non è il semplice omicidio colposo, bensì il ben più grave omicidio volontario con dolo eventuale. La Corte ha cioè stabilito, al termine di una lunga e faticosa istruttoria, che l’azienda – e in suo nome l’A.D. Espenhahn – nel momento in cui decideva di non approntare tutte le misure di sicurezza necessarie (quello di Torino era uno stabilimento destinato a chiudere nel giro di qualche anno) si rendesse conto che vi fosse la possibilità che un incidente mortale si verificasse ma decidesse comunque di agire in questo modo, “costi quel che costi” (o, in questo caso, *non* costi).
Pene elevate sono state disposte anche per gli altri imputati: 13 anni e 6 mesi per Marco Pucci, Gerald Priegnitz (membri del Consiglio di Amministrazione), Raffaele Salerno (capo della sicurezza) e Cosimo Cafueri (capo dello stabilimento), 10 anni e 10 mesi per Daniele Moroni (dirigente), tutti ritenuti colpevoli di omicidio colposo con colpa cosciente, incendio, rimozione delle misure di sicurezza.
Si tratta, come è stato sottolineato da molti, di una sentenza epocale: finalmente è accolto il principio per cui l’azienda, in persona dei suoi dirigenti, risponde nel modo più severo per gli incidenti provocati dal mancato rispetto delle misure di sicurezza. I lavoratori non possono essere considerati semplici ingranaggi del meccanismo produttivo, ma sono prima di tutto persone con dignità e diritti: primo fra tutti quello a lavorare in sicurezza.
E proprio il rischio concreto di pagare sulla propria pelle è l’unico deterrente davvero efficace per l’avidità del padronato, che non esita a risparmiare su tutto ciò che non serve direttamente ad aumentare la produttività degli impianti.
Sono ovviamente balle quel che sosteneva Confindustria all’indomani dell’approvazione del Testo Unico sulla sicurezza – emanato proprio sull’onda del rogo di Torino – per cui non occorrono pene detentive come deterrenti per gli imprenditori, è sufficiente il loro senso di responsabilità: un migliaio di morti all’anno sono lì a dimostrare l’esatto contrario.
Con questa sentenza – sperando venga confermata in appello e in Cassazione – non so dire se giustizia sia stata fatta. Ma se non altro, per una volta, le morti bianche non sono rimaste impunite. Auguriamoci che non rimanga isolata: è l’unico modo perché diminuiscano le vittime del lavoro – o meglio: del lavoro nel mercato selvaggio.