Probabilmente non ve ne siete accorti, ma da un paio di giorni in parecchi avete perso un diritto: quello di rivolgervi a un Tribunale, se il vostro datore di lavoro vi fa torto, senza dover anticipare un soldo.
Il Governo ha infatti inserito di nascosto nella “manovra correttiva” (il decreto legge 98/2011 dello scorso 6 luglio) l’obbligo di pagare una tassa d’iscrizione, il cosiddetto “contributo unificato” per poter instaurare una controversia di lavoro. Per evitare che qualcuno (magari il Presidente della Repubblica Napolitano, che ha meccanicamente firmato il decreto senza esprimere dubbi) se ne accorgesse subito, la norma è un ago nel pagliaio della manovra: è scritta in modo totalmente incomprensibile a chiunque non sia un addetto ai lavori (e anche a parecchi addetti ai lavori) e piazzata a metà di un articolo di svariate pagine dal titolo “Disposizioni per l’efficienza del sistema giudiziario e la celere definizione delle controversie” (se qualcuno vuole leggerselo: art. 37, comma 6).
Il contesto mi pare significativo: come rendere più efficiente e veloce il sistema giudiziario? Non aumentando il numero degli addetti agli uffici giudiziari, ma imponendo una tassa che colpisce esclusivamente i soggetti deboli: i lavoratori che ritengono di aver subito un torto dal proprio datore. Anche fingendo per un istante che l’obiettivo del Governo fosse davvero la maggiore efficienza del sistema giudiziario, andrebbe spiegato che il processo del lavoro è uno dei pochi che sono *già* almeno relativamente veloci: non ci sarebbe stato nessun bisogno di intervenire proprio su questo settore.
Ma è evidente che gli scopi sono altri: raggranellare qualche soldo senza disturbare gli interessi e i portafogli dei ricchi e dei potenti, e già che ci sono dare un altro colpo ai diritti dei lavoratori.
Va detto, per completezza, che non tutti sono tenuti a pagare questo balzello: continuano a esserne esentati i lavoratori che hanno un reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, inferiore al doppio della soglia per essere ammessi al gratuito patrocinio. In soldoni (anzi, in soldini!) il processo continua a essere gratuito per chi abbia dichiarato nell’ultimo anno meno di 21.000 Euro circa. Per gli altri, l’importo della tassa varia secondo scaglioni legati al valore della causa, da una ventina di euro quando si chiedono pochi soldi (fino a un migliaio di Euro) a salire fino a oltre 500 Euro per le cause più importanti; per tutte le cause che hanno come obiettivo la costituzione di un rapporto di lavoro (tutte quelle dei precari, ad esempio), il cui valore è “indeterminabile”, l’importo sarà di 225 Euro.
Mi pare di sentire qui alcune obiezioni di qualche editorialista benpensante di Repubblica o del Corriere (ammesso che si interessino di questa faccenda, rigorosamente tenuta sotto silenzio finora):
1) Chi guadagna poco continua a non pagare
Attenzione, 21.000 Euro (lordi) possono sembrare a prima vista una soglia abbastanza alta, ma in realtà equivale a uno stipendio di poco più di 1.000 Euro netti al mese per un dipendente – anche a tempo determinato: per intenderci, un operaio o impiegato metalmeccanico nel 5° livello (il 1° è il più basso) o la commessa di un negozio (4° livello del settore commercio) sono già sopra la soglia.
2) Se il lavoratore vince la causa, i soldi anticipati vengono rimborsati dal datore di lavoro
Certo, e ci mancherebbe altro. Ma per molti è un problema anticipare qualche centinaio di Euro “alla cieca”, sapendo che li rivedrà, forse, nel giro di un anno o due. Si noti che sia il rischio che il tempo non dipendono soltanto dall’esito e dalla lunghezza del giudizio, ma soprattutto dalla possibilità materiale e all’estrema difficoltà, spesso, di ottenere i soldi a cui si ha diritto anche dopo aver ottenuto una sentenza favorevole. Intendo dire che in non pochi casi si vince la causa nel giro di qualche mese ma poi si impiegano anni per ottenerne effettivamente l’esecuzione, perché nel frattempo il datore di lavoro è sparito con la cassa. Ecco, qui dovrebbe intervenire un Governo che voglia davvero rendere più efficiente il sistema giudiziario!
3) Per tutte le altre cause (tranne che in materia di famiglia) già esiste il contributo unificato da anticipare: si parifica il settore del lavoro a tutti gli altri
Ma il settore del diritto del lavoro non è affatto come tutti gli altri! Qui abbiamo nel 99,99% dei casi una parte debole che già di per sé ha mille dubbi sull’opportunità di rivolgersi alla giustizia per ottenere i propri diritti: il lavoratore è in posizione di soggezione economica e psicologica dal datore di lavoro, da cui letteralmente “dipende”. Obbligarlo ad anticipare una tassa significa aggiungere un altro ostacolo, un altro motivo per soprassedere e continuare a subire. Significa favorire l’ingiustizia. Che, per inciso, è proprio tra gli scopi della riforma.
I prossimi due mesi sono cruciali (e non a caso, come sempre, il tutto avviene in piena estate!): il decreto legge dovrà essere convertito in legge dal Parlamento entro 60 giorni o perderà efficacia. Soltanto una mobilitazione massiccia potrà obbligare chi dovrebbe rappresentarci a cancellare questa ingiustizia di proporzioni colossali: è indispensabile diffondere la notizia e organizzare questa mobilitazione, con tutti gli strumenti e le forze disponibili. Il sindacato batta un colpo, o il colpo si abbatterà sui nostri diritti.