Ieri, con il voto di fiducia, è stata approvata in via definitiva la manovra, con tanto di firma del Presidente della Repubblica Napolitano. L’articolo 8 non è stato toccato e di fatto autorizza da oggi tutte le peggiori porcate, compresa, in teoria, la deroga all’Articolo 18.
Le mobilitazioni di questi primi giorni di settembre hanno sortito, per il momento, un unico effetto: la Camera ha approvato un ordine del giorno che “impegna il Governo a valutare attentamente gli effetti applicativi dell’articolo 8, al fine di adottare ulteriori iniziative normative volte a rivedere quanto prima le disposizioni, coinvolgendo le parti sociali al fine di redigere una norma integralmente conforme agli indirizzi, ai contenuti e alle finalità dell’accordo del 28 giugno 2011“.
Il testo porta la firma di Cesare Damiano, già Ministro del Lavoro nell’ultimo governo di centrosinistra, ed è ovviamente una fregatura, che chiude il cerchio della vera manovra: quella contro i lavoratori imbastita fin dall’inizio dell’estate da governo e padronato, con la complicità di tutte le forze politiche parlamentari e dei sindacati “gialli” CISL e UIL e la corresponsabilità della CGIL.
Riassumiamone i passaggi, tanto perché non si dimentichi per strada qualche pezzo o qualche protagonista.
Alla fine dello scorso giugno, con scarsissimo preavviso, Susanna Camusso sottoscrive con gli altri sindacati confederali e con Confindustria un accordo che consente tra l’altro alle rappresentanze sindacali aziendali di firmare accordi aziendali in deroga ai contratti collettivi nazionali, anche senza necessità di sottoporli ai lavoratori (quando vi sono RSU in azienda). Marchionne si lamenta che l’accordo, non essendo retroattivo, non si applichi ai rospi che ha fatto ingoiare agli operai di Pomigliano e Mirafiori.
La sinistra sindacale, guidata dalla FIOM, insorge contro questa vera e propria svendita dei diritti, contro la quale, in fortissima polemica con l’ala concertativa della CGIL, annuncia massicce mobilitazioni.
A inizio luglio, una prima manovrina introduce un nuovo ostacolo all’effettiva tutela dei diritti dei lavoratori, imponendo una tassa per le cause di lavoro – dopo alcuni giorni di proteste viene fissata una soglia di reddito piuttosto alta sotto la quale scatta l’esenzione.
Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto scoppia il caos sui mercati finanziari. Il Governo coglie la palla al balzo per varare in quattro e quattrotto una manovra di proporzioni colossali, con una blandissima e del tutto inefficace opposizione da parte del Partito Democratico. La Camusso compare al fianco della Marcegaglia, che come “portavoce delle parti sociali” critica il Governo e rivendica il ruolo dell’autonomia della concertazione tra le stesse parti sociali.
Nel “decreto di Ferragosto” viene inserita la norma, contenuta nell’art. 8, che recepisce ampliandoli a dismisura i principi portanti dell’accordo del 28 giugno: mediante accordi aziendali, e anche territoriali, si può derogare non soltanto il CCNL ma perfino la legge; tra le materie che possono essere oggetto di deroga compare inoltre la disciplina del licenziamento: è l’ennesimo tentativo di abrogare per vie traverse l’Articolo 18.
La CGIL inverte la rotta seguita da fine giugno e si scontra frontalmente con CISL e UIL proclamando lo sciopero generale per il 6 settembre e lanciando una campagna contro l’art. 8 del decreto (che nel frattempo viene ulteriormente peggiorato dal Governo). La FIOM scompare dalla scena, o perlomeno occupa una posizione molto marginale: non ha oggettivamente senso contestare la Camusso proprio mentre appare gli occhi di milioni di lavoratori come l’eroina che combatte per i loro diritti.
Ma le parole d’ordine della CGIL sono volutamente ambigue e annacquate: davanti a milioni di lavoratori scesi nelle strade e nelle piazze di tutta Italia con l’esplicito intento di “cacciare tutti”, Camusso e i suoi compari dichiarano che l’obiettivo dello sciopero è sì cancellare il nefasto art. 8, ma soltanto per ritornare al quasi altrettanto nefasto accordo del 28 giugno.
E veniamo appunto a ieri. Risultati: la possibilità di deroga alla legge e CCNL, anche in tema di licenziamenti, è legge. L’accordo del 28 giugno sembra sdoganato tanto che il suo rispetto è invocato come “impegno per il Governo”: Confindustria, sparando altissimo con l’attacco all’art. 18, ha comunque portato a casa la liberalizzazione dei precari senza dover sparare un colpo, secondo lo schema già sperimentato con successo con il Collegato Lavoro lo scorso anno. La dirigenza della CGIL è allineata sulle posizioni del Partito Democratico (Ichino docet!) e prepara un riavvicinamento con CISL e UIL in vista di una nuova stagione di concertazione, anche in deroga ai contratti collettivi. La sinistra sindacale ha perso per il momento la posizione di vantaggio che aveva nei confronti di Camusso & soci, che si possono ammantare adesso di una spolverata di “sinistra”. I lavoratori scesi in piazza il 6 settembre non possono che essere disorientati in mancanza di parole d’ordine chiare ed efficaci.
La partita è chiusa?
Io credo di no. Certo, c’è da spezzare un vero e proprio assedio. Ma a rompere le uova nel paniere così accuratamente allestito potrà essere l’esasperazione di milioni di persone che vedono le proprie condizioni di vita peggiorare inesorabilmente, e che nei prossimi mesi saranno sottoposte a una pressione sempre maggiore: nessuno può ragionevolmente pensare che con questa manovra finiranno i tagli a pensioni, salari, assistenza sociale! Quanto a lungo la CGIL sarà in grado di tenere la briglia? Quanto tempo ci metterà la sinistra sindacale a recuperare terreno? Che cosa succederà nel frattempo nel resto del mondo? Quante scintille scoccheranno sotto la cenere con cui cercano di coprirci? Sono tutte variabili che lasciano spalancata la porta a qualsiasi scenario nell’autunno che incombe.
I settori più coscienti del movimento dei lavoratori, la sinistra sindacale e politica, i delegati di base più combattivi, hanno il dovere di mettere da parte le reciproche incomprensioni ed essere pronti ad alimentare qualunque movimento che punti a rompere l’assedio, con parole d’ordine chiare e radicali all’altezza del compito: “dobbiamo fermarli“!