Oggi e domani si consuma il demenziale “sciopero degli avvocati” contro le liberalizzazioni del Governo Monti. Sono particolarmente seccato dalla cosa perché questa mattina ho visto rinviata la decisione di una causa perché la controparte, senza sognarsi di avvisare prima, è arrivata bella fresca in udienza a dire che “aderiva all’astensione”.
– E lei, avvocato, che fa?
– Eh, che devo fare? Prendo atto infastidito e cercherò inutilmente di spiegare la cosa ai miei assistiti.
In effetti non penso di riuscire a spiegare la cosa, perché mi pare che sia proprio lo strumento dell’astensione dalle udienze a non aver senso: danneggia soltanto le persone che i legali dovrebbero assistere e tutelare. E tra l’altro non fa che confermare ciò che molti (me compreso) sospettano: che chi promuove lo sciopero, ossia, semplificando, gli avvocati più anziani e ricchi, costituisca una casta di privilegiati che si lamenta perché non vuole perdere i propri privilegi. Proprio non vedo come costoro possano rappresentare la gran massa di avvocati giovani che faticano a trovare spazio proprio a causa (o perlomeno anche a causa) della rendita da monopolio degli studi più grossi e famosi.
Non che la riforma (i cui contorni sono del resto ancora tutti da precisare) di per sé risolva granché, né per i cittadini né per gli avvocati. Le tariffe minime già non esistono più specialmente per i professionisti più giovani, mentre gli studi più grossi e importanti vivono di rendita sui loro clienti che già pagano – e continueranno a pagare – ben più dei massimi. Ma non voglio tediarvi con questi argomenti che già sono profondamente noiosi per me.
Per lasciarvi con un sorriso vi racconto questa esperienza un po’ surreale che mi è capitata qualche giorno fa.
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L’art. 255 del codice di procedura civile dice che se il testimone si trova nell’impossibilità di presentarsi il giudice si reca nella sua abitazione.
– Buongiorno, possiamo salire? Sa, per la testimonianza.
– Certamente, ultimo piano – risponde al citofono una voce femminile dal marcato accento latino. Non latino nel senso di antico romano, anche se l’età della testimone potrebbe trarre in inganno: si tratta della badante sudamericana.
Dopo la faticosa scalata, entriamo nell’abitazione di Nonna Speranza (chiamerò così, per ragioni di privacy e per l’ovvia reminiscenza, la nostra testimone). Siamo: un giudice, un cancelliere, un’attrice – nel senso tecnico di colei che ha iniziato la causa (cit. Daniele Luttazzi) – due rappresentanti della controparte, due avvocati, una praticante. Quanti anni era che Nonna Speranza non accoglieva in casa tante persone tutte in una volta?
– Buongiorno signora.
– Chi è lei?
– Sono un giudice del Tribunale di Milano, sono venuto a chiederle … dei ricordi [che meravigliosa formulazione!]
– Ah, i ricordi … E chi è quello lì?
– È il cancelliere.
– Di quali cancelli?
– (Sorride.) Dei cancelli del Tribunale di Milano [questo giudice ci sa proprio fare.]
– E questa qui chi è?
Eccetera. Nonna Speranza non ricorda nulla. Intendo letteralmente nulla, compresi il luogo e la data in cui è venuta al mondo. Ma ha un sorriso per tutti, specialmente per quel bravo signore che le fa le domande: lo chiama “papà”. E non è forse ogni papà un giudice per i suoi figli?
– Sono stata brava, papà, vero? Anche loro sono bravi, tutte queste persone. Lui è bravo [il cancelliere], lei è brava [la mia cliente], lui è bravo [io] … [cut] … Digli di lasciar perdere, papà, di fare pace, perché devono litigare? Mandate tutto al diavolo!
Lasciamo la casa, il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto. Scendiamo le scale in processione: il giudice, il cancelliere, gli avvocati, la praticante, per ultime l’attrice e le controparti, che parlottano. Se faranno pace alla prossima udienza, sarà anche merito di Nonna Speranza.
Sempre che gli avvocati, quel giorno, non facciano sciopero.