One Big Union

Avrei dovuto scrivere questa recensione alcuni mesi fa, quando ho letto l’ultimo romanzo di Valerio Evangelisti. Mi scuso per il ritardo ma va detto che questi mesi mi hanno consentito di apprezzare ancora di più la straordinaria attualità del libro.

Come già nel precedente Noi saremo tutto (di cui One Big Union rappresenta in qualche modo la premessa), lo scrittore ci racconta i capitoli dimenticati della storia degli Stati Uniti, rivelandoci che si tratta di un Paese tutt’altro che immune alla lotta di classe.

Qui siamo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: le organizzazioni tradizionali del giovane movimento operaio americano non riescono a stare al passo con un tessuto sociale in profondo e rapido cambiamento. La produzione diviene realmente un processo di massa e coinvolge strati giganteschi di lavoratori non specializzati, difficili da organizzare perché privi di tradizione sindacale,  sottoposti col ricatto della fame alle peggiori condizioni di lavoro, divisi tra decine di gruppi etnici e linguistici chiusi, sparsi in un territorio immenso e spesso “nomadi”. I sindacati tradizionali raccolgono per antica consuetudine soltanto gli operai specializzati e, non essendo in grado di intercettare la nuova generazione di lavoratori, diventano un soggetto marginale nel quadro generale della lotta di classe.

Di fronte alla divisione e alla generale moderazione delle organizzazioni dei lavoratori, il padronato attacca compatto per imporre diminuzioni del salario ed eliminare ogni forma di dissenso. Lo fa anche con l’uso di spie, con il compito di infiltrarsi nelle file delle organizzazioni operaie e identificare i facinorosi: socialisti, anarchici, chiunque minacci l’ordine costituito.

Crisi economica, debolezza e frammentarietà della classe lavoratrice, attacchi feroci del padronato per imporre il proprio potere assoluto nei luoghi di lavoro: è storia di oggi.

In questo contesto sono mature le condizioni per la nascita e l’ascesa di una nuova forma di sindacato, plasmata sull’organizzazione del lavoro imposta dai grandi imprenditori: il suo successo, pur tra alti e bassi, è legato, da una parte, alla capacità di coinvolgere gli operai non specializzati, gli immigrati, gli stagionali e in generale le fasce più sfruttate della classe operaia; dall’altra, alla straordinaria determinazione dei suoi attivisti e all’elaborazione di pratiche non convenzionali di lotta.

A colpire, nel romanzo di Evangelisti, non è soltanto la descrizione della crisi (ché in fondo, si sa che le crisi nel capitalismo sono cicliche ed è inevitabile che abbiano tratti comuni) ma soprattutto la rappresentazione dei metodi usati dal padronato per imporre la propria volontà, con il pieno appoggio dei media, dell’apparato statale e perfino di parte (gran parte!) degli apparati sindacali: con precisione ed efficacia di cui pochissimi sono capaci, l’autore racconta di ieri ma parla di oggi.

Questo dialogo chiarisce che cosa intendo. Siamo all’indomani della battaglia fluviale all’acciaieria di Homestead, combattuta dagli agenti assoldati dal padrone Carnegie contro gli operai in sciopero per la drastica riduzione dei salari. A parlare è il capo di una delle agenzie investigative coinvolte:

«Puoi non crederci, ma abbiamo vinto. Leggi i giornali di domani, e dei giorni successivi. Prima interveniamo noi, poi la stampa. Seguono i politici e i tribunali. Infine interviene l’esercito. Tutti assieme siamo la forza che regge il paese. Lo sapevi?»

«No.»

«E’ perché hai un’idea vaga di cosa sia la democrazia… ” 

Qualsiasi imprenditore titolare di un appalto legato alla TAV potrebbe tranquillamente fare un discorso del genere a un suo sottoposto.

È interessante anche la prospettiva scelta dall’autore per raccontare la vicenda degli IWW: gli occhi attraverso cui la osserviamo non sono quelli di un attivista del sindacato; come già in Noi saremo tutto, il punto di vista è quello di un “cattivo”: in questo caso una delle spie al soldo del padronato. La scelta è felice, non soltanto perché evita una rappresentazione agiografica degli IWW, ma anche perché consente di capire meglio i meccanismi della repressione: la lotta di classe vista dal lato dei padroni.

Rispetto a Eddie Florio, protagonista del precedente romanzo “americano” di Valerio Evangelisti, Robert Coates è un personaggio privo di qualsiasi grandezza: incapace di comprendere davvero quale sia la posta in palio nel conflitto tra padronato e classe lavoratrice, si limita a obbedire agli ordini, a osservare, carico di un rancore sordo e ostinato. La sua fiducia cieca nel sistema che difende si rivela fin da subito, e a ogni passo, clamorosamente autolesionista: eppure i pregiudizi di cui è stato nutrito hanno sempre la meglio.

Eppure il personaggio di Coates non è affatto una caricatura: per verificarlo è sufficiente sfogliare i commenti dei lettori di Corriere.it agli articoli sulla riforma del mercato del lavoro, in questi giorni. Il punto è che non ci sono vie di mezzo: chi non combatte il sistema, sia che lo difenda attivamente sia che lo subisca senza opporsi, lo legittima e lo sostiene. O IWW o Robert Coates: bisogna scegliere. Susanna Camusso: de te fabula narratur.

Il confronto tra gli USA di inizio Novecento e l’Italia di oggi è imperfetto: manca a noi un sindacato come quello degli Wobblies. Si può immaginare che questo sia il motivo principale per cui Evangelisti ha scritto proprio questo libro e proprio adesso, nel pieno della più feroce campagna che si ricordi contro i diritti dei lavoratori: per segnalare l’urgenza di un soggetto in grado di coinvolgere gli esclusi, immigrati e precari su tutti, e di organizzare e soprattutto collegare le lotte dal basso, democraticamente. Anche oggi, come allora, le condizioni sono mature perché si formi One Big Union.

Condividete se vi piace!

One comment

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.