“It’s a trap!” Se un parente giuslavorista dell’Ammiraglio Ackbar leggesse la relazione sulla riforma del lavoro approvata dal Consiglio dei Ministri lo scorso venerdì, commenterebbe così. Al momento, questo è il testo più simile a un disegno di legge che il governo abbia reso pubblico. Vale la pena leggerlo con attenzione partendo dall’inizio, ossia dalle tanto sbandierate misure “anti-precarietà”. Ed ecco subito la prima sorpresa, di cui avremmo volentieri fatto a meno:
Nella logica di contrastare non l’utilizzo del contratto a tempo determinato in sé, ma l’uso ripetuto e reiterato per assolvere ad esigenze a cui dovrebbe rispondere il contratto a tempo indeterminato, viene previsto che il primo contratto a termine – intendendosi per tale quello stipulato tra un certo lavoratore e una certa impresa per qualunque tipo di mansione – non debba più essere giustificato attraverso la specificazione della causale.
In pratica, perlomeno il primo contratto a termine sarà sempre valido, senza alcuna possibilità di impugnazione; soltanto dal secondo (con la stessa azienda) si potrà valutare se il datore di lavoro aveva un motivo valido per assumere a tempo determinato invece che a tempo indeterminato, ed eventualmente impugnare il contratto. Considerate che la gran parte delle cause che si fanno (e si vincono o si conciliano in modo soddisfacente) in materia di contratti a termine si basano proprio sul fatto che i contratti sono privi di causale, oppure hanno una motivazione tanto generica da non poter essere verificata dal giudice. Di fatto, abolendo l’obbligo di indicare la causale nel primo contratto, il governo spinge le aziende non solo ad assumere a tempo determinato, ma anche a non rinnovare i contratti: è una vera e propria condanna alla precarietà perpetua. Il ridicolo maggior costo contributivo (1,4% in più a carico dell’imprenditore, ma escluse diverse tipologie di contratti a termine) a questo punto è una presa per il culo.
Nemmeno Pietro Ichino nei suoi sogni più bagnati avrebbe osato sperare tanto.
Altro paragrafo, altro giro, altro regalo – per il padronato ovviamente: si parla ora dell’apprendistato, che come abbiamo già scritto diventa “il canale privilegiato di accesso dei giovani al mondo del lavoro“. L’apprendistato è in effetti una specie di contratto a tempo determinato, in genere per periodi un poco più lunghi ma con retribuzione ridotta fino al 60%. Per evitare che le aziende ne abusino, era prevista una proporzione di 1/1 tra apprendisti e dipendenti “qualificati”: non più di un apprendista per ogni lavoratore assunto regolarmente. Adesso questa proporzione viene aumentata fino a 3/2!
Certo, in teoria il datore di lavoro, in cambio dello sconto, dovrebbe garantire una formazione professionale agli apprendisti. Peccato che “la registrazione della formazione è sostituita da apposita dichiarazione del datore di lavoro“. Che cosa significa? Significa che, ad esempio, il padrone di un supermercato, in un negozio con dieci dipendenti “normali”, potrà assumere quindici cassiere pagandole, tra salario inferiore e sgravi contributivi, poco più della metà per tre o quattro anni, limitandosi a “dichiarare” che viene impartita loro una formazione professionale (senza che nessuno controlli sul serio se è una finta – come capiterà a questo punto sempre più spesso – oppure no). Alla fine del periodo di apprendistato ne lascerà a casa una buona parte per assumerne altre sempre a prezzo di saldo.
Intendiamoci, lo facevano anche adesso (l’esempio, come si dice, è “ispirato a fatti realmente accaduti”), ma almeno senza vantarsene.
Avanti i prossimi: contratti a progetto, “partite IVA” e stage. Qui non cambia niente davvero, a parte un modesto aumento dei contributi, che con ogni probabilità sarà compensato da una riduzione dei compensi netti. Le belle parole sui “disincentivi normativi” che dovrebbero rendere più oneroso e controllabile il ricorso a questi contratti sono, per l’appunto, parole: perlopiù si tratta di regole che *esistono già* in teoria, e in pratica vengono serenamente ignorate dai datori di lavoro. Lo stesso vale per gli stage. Ah, una cattiva notizia: non è affatto vero che saranno obbligatoriamente retribuiti. Del resto, la competenza in materia è delle Regioni, che continueranno a fare un po’ quel che gli pare senza curarsi delle supercazzole del Ministro.
Delle modifiche all’Articolo 18 si è già detto e non sembrano esserci per il momento altre grandi novità: una sintesi semplice ma efficace la trovate qui. Ci torneremo comunque quando verrà presentato un vero e proprio disegno di legge, intanto potete consultare la bozza per la discussione con le parti sociali: eccola qui.
La buona notizia è che tutto questo è ancora nella mente del governo: si fa ancora in tempo a fermarli. In fondo, se un villaggio di Ewok ha sconfitto l’Imperatore, cacciare Monti non sarà un problema per qualche milione di lavoratori.