“La riconquista dello strumento del reintegro nel caso dei licenziamenti economici insussistenti è un risultato positivo che ripristina un principio di civiltà giuridica”: così si esprime la CGIL nel suo comunicato ufficiale, pur “rinviando le osservazioni specifiche a un futuro più compiuto esame dell’articolato in essere”. E speriamo, senza contarci troppo, che dopo il “più compiuto esame” si accorgano che stanno avallando una colossale presa in giro.
Non che ci voglia Sherlock Holmes a scoprire la fregatura, basta ascoltare Mario Monti, che candidamente spiega: “Reintegro solo in casi estremi e improbabili”. L’eccezione dunque.
Il punto è esattamente questo, e in effetti è molto semplice. Finora la regola era che il lavoratore licenziato ingiustamente, per qualsiasi motivo, aveva diritto a essere reintegrato, senza se e senza ma. Era soltanto sua la scelta eventuale di rinunziare a quel posto di lavoro in cambio di un indennizzo economico: scelta del tutto comprensibile, specialmente in realtà relativamente piccole in cui sarebbe stato più facile per il datore di lavoro “vendicarsi”; ma pur sempre scelta libera, resa possibile e valorizzata soltanto dalla regola fondamentale del diritto alla reintegrazione.
Tutt’altro il quadro delineato dal disegno di legge del governo. Lasciando da parte il fantomatico licenziamento discriminatorio, in tutti i casi reali di licenziamento abusivo la tutela normale sarà quella risarcitoria e soltanto “in casi estremi e improbabili” avverrà il reintegro. Come interpretare diversamente la lunga sequela di casi, sottocasi e deroghe del nuovo art. 18?
Prendiamo i licenziamenti disciplinari, per giusta causa o giustificato motivo soggettivo: dal punto di vista giuridico la distinzione tra i casi in cui il licenziamento è ingiustificato “per insussistenza dei fatti contestati ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa” (in cui è prevista la reintegrazione) e le “altre ipotesi” (in cui è previsto il solo indennizzo) non ha alcun senso. Lo ha ammesso fra le righe anche il ministro Fornero quando ha riconosciuto di non esserne a conoscenza. L’unico significato possibile è che, a voler essere ottimisti, ci saranno comunque dei casi in cui in precedenza il lavoratore avrebbe ottenuto il reintegro, che invece saranno sanzionati soltanto con un risarcimento economico. Ma davvero non c’è alcun motivo per essere ottimisti, mi pare.
Peggio ancora per i licenziamenti economici, per giustificato motivo oggettivo: qui non si vede proprio che cosa abbia da cantare la CGIL, che rivendica di aver “salvato l’articolo 18”. La conseguenza nel caso in cui sia accertato che il licenziamento non era giustificato sarà infatti di regola il risarcimento; soltanto se sia accertata la “manifesta insussistenza” dei motivi economici scatterà la reintegrazione: si tratta, ancora una volta, di “casi estremi e improbabili”. Basterà infatti, presumibilimente, che il bilancio aziendale indichi una leggera difficoltà per evitare il reintegro, anche se il licenziamento non sia in alcun modo connesso a tale difficoltà. Luca Telese su Il Fatto Quotidiano traccia un esempio efficace di come sarà il futuro, se la riforma sarà approvata: “Ti ricordi i nuovi investimenti? Sul bilancio di quest’anno la motivazione economica c’è. Come fai a dimostrare ‘manifestamente’ il contrario?”.
Per dirla in modo più tecnico, ma spero altrettanto comprensibile: fino a oggi, in una causa di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro doveva dimostrare rigorosamente non soltanto che le difficoltà economiche ci fossero (fatto), ma anche e soprattutto che il licenziamento fosse intrinsecamente legato a quelle difficoltà (nesso di causa-effetto) e che non fosse in alcun modo evitabile. Adesso sarà sufficiente qualche vaga documentazione – e volete che durante una crisi sia poi difficile trovare dati di bilancio negativi? – per cavarsela con un risarcimento relativamente modesto. Per intenderci, FIAT potrebbe essere autorizzata (dietro un più o meno magro indennizzo) a licenziare ingiustamente singoli lavoratori adducendo diverse false motivazioni di tipo economico, semplicemente mostrando al giudice i dati di vendita in calo.
Mi sembra così sufficientemente dimostrato l’assunto di partenza che, stando così le cose, la regola diventa il risarcimento mentre il reintegro è soltanto l’eccezione. Ma tutto questo discorso non è in effetti altro che una chiosa delle esplicite affermazioni del Presidente del Consiglio.
La regola e l’eccezione, il senso della riforma è tutto qui. Anche per quanto riguarda i precari.
Qui l’ipocrisia del governo è davvero disgustosa. L’art. 3 del disegno di legge introduce nella disciplina dei contratti a termine, proprio nel preambolo, l’espressione “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. Bello, vero? Specialmente perché sembra una grande e positiva novità rispetto alla percezione diffusa che la realtà sia ben diversa: sembra quasi che il governo voglia davvero impegnarsi per ridurre la precarietà. Ma è soltanto un trucco, una presa in giro. Qualche sospetto potrebbe venire anche solo leggendo la versione attuale della norma, quella che verrà eliminata: “Il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato.”
Se è così già oggi, perché cambiarla? Semplice: perché con la riforma il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato continuerà forse a essere, come è già oggi (nonostante possa sembrare il contrario), la forma di rapporto di lavoro numericamente maggioritaria; ma di sicuro il tempo indeterminato non sarà più il modo in cui di regola sono stipulati i contratti di lavoro subordinato.
Sono principalmente due gli interventi che favoriscono mostruosamente i rapporti precari – altro che sforzi per superare il “doppio binario”: l’enorme rafforzamento dei contratti di apprendistato, ulteriormente agevolati nel disegno di legge rispetto alle intenzioni iniziali, e la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato, a cui si aggiungono ora anche quelli in somministrazione (interinali).
Per quanto riguarda l’apprendistato (veri e propri contratti a termine fino a quattro anni di durata, ma a costo dimezzato per il datore di lavoro), viene aumentato il rapporto apprendisti/stabili da 1/1 a 3/2, vengono azzerati i controlli sull’effettività della formazione, affidata a un’autocertificazione del datore, e viene diminuita la percentuale di stabilizzazioni indispensabili per poter assumere nuovi apprendisti, dal 50% al 30%. In pratica, un’azienda con venti dipendenti potrà assumere fino a trenta apprendisti, tenerli per qualche anno a prezzo di saldo senza svolgere una vera formazione (tanto nessuno controlla) e alla fine assumerne stabilmente soltanto dieci per poterne riprendere altri venti a costo dimezzato.
La vera rivoluzione riguarda però i contratti a termine e – sgradita novità del disegno di legge rispetto alla precedente relazione – quelli in somministrazione (gli ex interinali). Se prima era sempre obbligatorio specificare per iscritto nel contratto i motivi del ricorso al tempo determinato (ecco perché la stipula era considerata di regola a tempo indeterminato), adesso quest’obbligo viene abolito per il primo contratto, qualora sia di durata superiore a sei mesi.
In altre parole, il contratto di lavoro subordinato sarà stipulato adesso di regola a tempo determinato, e soltanto in via eccezionale subito a tempo indeterminato. Un incoraggiamento, se mai ce ne fosse stato bisogno, a ingaggiare precari e farli girare nel posto di lavoro come criceti nella ruota.
Non so se la CGIL confermerà a questo punto lo sciopero generale: ultimamente, le uscite sbagliate di Susanna Camusso sono la regola. Per scongiurare questa riforma e sconfiggere il governo bisognerà mettere in campo una lotta eccezionale.