– Che lavoro schifoso! –
– Potrebbe esser peggio –
– E come? –
Potrebbero fare degli emendamenti. Infatti, eccoli qui. Non è ancora asciutto l’inchiostro sul testo della Commissione Lavoro del Senato, che i due principali quotidiani italiani titolano all’unisono: “Arriva il salario base per i co.co.pro.“. Purtroppo, mentono.
Ma andiamo con ordine e cominciamo col dire che questi emendamenti sono tutti condivisi da PD e PdL, portando la firma dei relatori di entrambi i partiti: Tiziano Treu, che ricordiamo già padre dei contratti a termine nel lontano 2001, e Maurizio Castro, che non so di che cosa sia padre ma ho qualche idea di chi sia figlio. Una volta di più, i due principali partiti che sostengono il governo dimostrano di essere sostanzialmente intercambiabili: dispiace che in troppi non se ne siano ancora accorti.
Partiamo proprio dai contratti a progetto. L’emendamento citato da Corriere e Repubblica propone di assumere “come criteri di quantificazione [del compenso dovuto ai co.co.pro] da un lato, gli emolumenti previsti per analoghe prestazioni svolte nella forma del contratto d’opera … e, dall’altro, la media delle retribuzioni previste dai contratti collettivi in riferimento a prestazioni comparabili e omogenee rese in forma di lavoro subordinato“. Giudicate voi se questo equivale a stabilire un “salario base”: a me pare proprio di no. È una formulazione fumosa di applicazione e controllo pressoché impossibili: non fissa infatti alcun compenso minimo, e neppure dice che il compenso dovrà essere uguale a quello previsto dalla contrattazione collettiva di settore. I compensi dei lavoratori subordinati che svolgono “prestazioni comparabili” (non manca qui l’ironia: ora lo riconosce pure la legge che normalmente i co.co.pro. fanno lavori del tutto analoghi a quelli di lavoratori subordinati!) sono soltanto un criterio generico e abbinato ai compensi per il lavoro autonomo.
A ben guardare, poi, non cambia nulla rispetto alla situazione attuale. Infatti, la norma in vigore già stabilisce che “il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito“, formula analoga a quella dell’art. 36 della Costituzione, che a sua volta dovrebbe già essere interpretato con riferimento ai compensi previsti dalla contrattazione collettiva per il lavoro subordinato.
Nessuno però se n’è mai accorto, e nulla induce a pensare che qualche azienda se ne accorgerà in futuro: immaginate che a un colloquio venga proposto un contratto a progetto per 800 Euro al mese come, che so, correttore di bozze di una importante casa editrice. Qualcuno è seriamente convinto di poter obbligare l’azienda ad alzare il compenso fino a 1.300-1.400 Euro al mese come da contratto collettivo dell’editoria?
Con tutto l’ottimismo del mondo, qui non si tratta di bicchiere mezzo pieno: il bicchiere è proprio vuoto. Del resto lo era pure prima: si può dire che per i contratti a progetto, perlomeno, le cose non peggiorano.
Non sono altrettanto fortunate altre categorie di precari: gli assunti a tempo determinato e le “partite IVA”. Qui gli emendamenti riescono nell’impresa di peggiorare condizioni che già erano pessime, rendendo in sostanza ancora più difficile ottenere la conversione del contratto a tempo indeterminato: “Potrebbe piovere“, diceva Igor al giovane Frankenstein, e infatti piove, piove sul bagnato.
Avevamo già denunciato gli effetti spaventosi dell’abolizione dell’obbligo di motivare i contratti a termine di durata non superiore a sei mesi: significa in sostanza elevare a regola l’assunzione precaria, che invece dovrebbe essere assolutamente eccezionale. Bene, PD e PdL a braccetto propongono ora di alzare la soglia della liberalizzazione fino a un anno: evidentemente imprenditori grandi e piccini temevano che sei mesi non fossero sufficienti a spremere ogni stilla di sangue dal precario di turno, prima di buttarlo via e cambiarlo con uno nuovo. Per le imprese più grandi, un altro regalo: basta una firmetta sul contratto collettivo (nazionale, si presume) e non occorre mai motivare le assunzioni a termine, nel limite del 6% dei lavoratori occupati nell’unità produttiva, nel caso di avvio di una nuova attività, lancio di un prodotto o servizio innovativo, implementazione di rilevanti cambiamenti tecnologici, rinnovo o proroga di una commessa consistente. Sono un sacco di casi! E considerate le reazioni dei sindacati confederali di fronte allo scempio che stiamo subendo ho il forte sospetto che la firmetta arriverà quasi sempre. E se non arrivasse, non c’è problema: gli accordi aziendali infatti grazie alla manovra di ferragosto e al patto interconfederale del 28 giugno possono derogare ai contratti nazionali, basta che la RSU sia d’accordo.
Aumentano anche le partite IVA che non saranno più considerate finte, nonostante a tutti gli effetti lo siano. Infatti vengono inasprite le condizioni perché si possa parlare di “monocommittenza” e quindi operi la presunzione di un rapporto subordinato (da sei a otto mesi la durata minima del rapporto, dal 75% all’80% la quota di compensi sul totale, necessità di una postazione “fissa” – quindi se la mansione prevede spostamenti sarà quasi impossibile ottenere la conversione!) E comunque la presunzione non si applicherà, secondo la proposta della Commissione Lavoro, nei casi di prestazione “connotata da competenze teoriche di grado elevato” e, soprattutto, se il reddito annuo del lavoratore è superiore di un quarto al minimo imponibile ai fini del versamento di contributi. Tanto per intenderci, questo minimo per il 2012 è inferiore ai 15.000 Euro: basterà quindi un reddito annuo intorno ai 18.000 Euro (lordi, ovviamente) per essere condannati a questa forma di precarietà.
Non ho tempo adesso di scendere nel dettaglio delle scarse, e comunque non positive modifiche riguardanti gli apprendisti (eliminato del tutto l’obbligo di stabilizzazione per le imprese sotto i 10 dipendenti, e per quelle da 10 in su aggiunto un apprendista “gratis” senza obbligo di stabilizzare quelli assunti il giro prima) e il lavoro intermittente (nuovamente liberalizzato per i soggetti con più di 55 e meno di 24 anni, con riduzione delle sanzioni in caso di omessa comunicazione all’Ufficio del Lavoro).
Non ho tempo perché devo ancora parlare dell’Articolo 18, nuovamente sfregiato.
Le modifiche qui sono due. La prima era prevedibile: il testo originale della riforma prevedeva che, in caso di licenziamenti disciplinari, l’efficacia del licenziamento fosse sospesa fino all’esito di una procedura di conciliazione davanti all’Ufficio del Lavoro. Una svista, secondo Tiziano Treu, che infatti spiega – e cito: “Se il lavoratore è un po’ biricchino e si mette in malattia rischia di bloccare tutto“. Problema risolto: il licenziamento, si chiarisce, è efficace da subito, niente scherzi.
Sempre i licenziamenti disciplinari riguarda l’altro emendamento, meno scontato e parecchio più grave. Il disegno di legge prevedeva, tra i casi di licenziamento illegittimo per cui era previsto il reintegro, le ipotesi in cui il Giudice accerta che “il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni della legge o dei contratti collettivi“. Emma Marcegaglia aveva dato voce alle feroci rimostranze di Confindustria, lamentando che, rispetto alla bozza a suo tempo discussa, erano state inserite le “previsioni della legge” oltre a quelle dei contratti collettivi. Temeva il padronato che in questo modo si estendesse eccessivamente il campo della reintegrazione rispetto a quello del mero indennizzo. Niente paura: ci hanno pensato Treu e Castro (e gli altri senatori della Commissione Lavoro del Senato, fra cui il nostro Pietro Ichino) a rimettere le cose a posto, levando di mezzo la spiacevole complicazione “della legge“.
Attenzione, il fatto che stia già piovendo (per quanto Corriere e Repubblica scrivano che c’è il sole) non significa che non possa peggiorare, se non si fa nulla per cambiare le cose: speriamo che la CGIL non faccia come la gatta della filastrocca, ma con o senza il sindacato, si muoveranno comunque i lavoratori di questo Paese, e tutti quelli che a prender la pioggia non ci vogliono stare.