(nella foto, il mercato del lavoro)
Visto che in questi ultimi giorni di lavoro sono relativamente tranquillo, ho voluto fare una statistica relativa ai fascicoli che ho sul mio tavolo, ossia quelli di cui mi sono occupato più recentemente.*
Circa metà della trentina di pratiche riguardano soldi non pagati. Nei casi più gravi (un quinto del totale, un terzo di questa tipologia), il datore di lavoro è proprio fallito; negli altri le somme mancanti possono derivare dalla mancata applicazione dei contratti collettivi ma anche dal mancato pagamento di due o tre stipendi e magari del TFR.
Poco meno di un terzo delle pratiche riguardano precari, equamente suddivise fra contratti a termine, in somministrazione (ex interinali) e a progetto.
Soltanto un fascicolo su dieci riguarda licenziamenti: su tre totali, due sono con l’articolo 18 – il vecchio articolo 18 – uno riguarda un’azienda con meno di 16 dipendenti.
Questo esame, assolutamente parziale, mi offre lo spunto per alcune considerazioni sul “lavoro ai tempi della crisi”.
La crisi
La crisi, a quanto vedo, serve spesso come arma di ricatto al datore di lavoro per evitare di pagare a chi lavora per lui, in tutto o in parte, quanto dovrebbe. Avviene a tutti i livelli: da Marchionne che fa ingoiare accordi capestro ai lavoratori FIAT, solo per poi lasciarli a prendere polvere (e soldi pubblici) in Cassa Integrazione, fino alla più piccola impresa individuale, che al momento opportuno sparisce lasciandosi alle spalle una nuvoletta di debiti non pagati.
Recentemente diversi “clienti” mi hanno raccontato di imprenditori che, mentre rifiutavano di pagar loro lo stipendio, li schernivano: “Fammi causa!”. Com’è possibile che tanti datori di lavoro siano così sicuri della loro impunità? Diciamo che hanno parecchi motivi per essere ottimisti: dalla loro parte, hanno la ruggine che giorno dopo giorno si deposita sugli ingranaggi del sistema giudiziario: chi non vuole pagare, riesce a continuare a farla franca per anni, se è abbastanza furbo. Alla fine, qualche cosa la pagherà l’INPS (sempre soldi pubblici, guarda caso), di malavoglia e al termine di un campo minato di burocrazia e inefficienza.
Ci sarebbero diversi modi per arginare il problema: su tutti, intervenire sul meccanismo della “responsabilità limitata” (per cui i creditori di una s.r.l. non possono rivalersi sul patrimonio personale di chi possiede le quote della società, neppure se si tratta del socio unico) in modo che sia più difficile far sparire i soldi, e rendere il fallimento più complicato e carico di conseguenze personali per l’imprenditore.
Non è una sorpresa che nessuna di queste misure sia allo studio del governo, che invece ha pensato bene con la spending review di ridurre il numero dei tribunali, tagliandone ovviamente anche personale e risorse (si racconta di tribunali che non possono più stampare le sentenze perché non hanno soldi per la carta!): tanto per rendere ancora più lunga e tortuosa la strada per recuperare il maltolto.
I precari
Il flusso di cause per contratti a termine, in somministrazione o a progetto non si è mai interrotto in questi ultimi anni. Nonostante il “liberi tutti” contenuto nella riforma del lavoro, prevedo che proseguirà senza eccessive differenze quantitative anche nel prossimo periodo.
La ragione è semplice: per quanto permissiva possa essere la legge, i datori di lavoro avranno sempre convenienza a violarla, data l’assenza pressoché totale di controlli. Anzi, per essere esatti, quanto più permissiva è la legge, tanto più gravi saranno gli abusi.
Quello che cambierà sarà dunque non il numero di cause, ma il livello di sfruttamento da tollerare prima di poterle fare: la riforma ha reso legali comportamenti che fino a poche settimane fa erano sanzionati, e aprirà senza dubbio nuove frontiere di illegalità. Nessun discorso sulla riforma del lavoro può dirsi serio se non parte da questo dato oggettivo. E infatti, aggiungo, nessun discorso sulla riforma del lavoro può dirsi serio.
Ma per quanto il Parlamento sia pieno di buffoni, nessuno può pensare che i buffoni che hanno approvato la riforma si siano semplicemente sbagliati. Nessuno, tranne Susanna Camusso, naturalmente. Ma questa è un’altra storia.
Organizziamoci!
Fra tante difficoltà, ci sono anche esperienze positive: se le condizioni di lavoro peggiorano, in attesa che maturino i tempi per la riconquista dei tanti diritti perduti (e speriamo maturino in fretta) è già qualcosa riuscire a rendere più capillare la difesa, e prima ancora la consapevolezza, dei pochi diritti rimasti.
Da questo punto di vista la mia migliore soddisfazione (professionale) di quest’anno per me è la realizzazione dello Sportello Lavoro con l’ARCI Radio Aut, che ha consentito di ottenere un po’ di giustizia a persone che, se non ci fosse stato, avrebbero probabilmente rinunziato a chiederla.
Moltiplicare i punti di riferimento per i lavoratori, in un momento in cui quelli tradizionali (partiti e sindacati) battono un colpo soltanto per bastonarli più forte, è una delle strade più utili che possiamo percorrere oggi per organizzare la resistenza: tre settimane per ricaricare le batterie e a settembre ripartiamo!
Buona estate a tutti!
*Casomai a qualcuno interessasse, ecco com’è organizzata la mia scrivania. I fascicoli sono suddivisi in 4 pile: nella prima, in genere molto bassa, ci sono gli atti che ho già scritto ma per qualche motivo (manca una firma, ho qualche dubbio da verificare, etc.) non sono ancora “partiti”; nella seconda ci sono i ricorsi che devo scrivere, in ordine dal più urgente (in alto) al meno urgente: è la mia “coda di lavorazione”, che cerco sempre di tenere sotto controllo; le altre due pile contengono grosso modo la mia “RAM”, ossia le pratiche che mi è utile avere sempre a portata di mano, di solito perché sto aspettando una risposta o sono comunque in corso trattative di qualche tipo: in una ci sono i fascicoli per i quali tocca a me dare un riscontro, nell’altra quelli in cui sono io ad aspettare una risposta; il transito tra le due è più o molto frequente, ovviamente più del passaggio da queste due pile a quella dei ricorsi da scrivere.