Olimpiadi Laser

Sono stato a Manchester per vedere la semifinale del torneo olimpico di calcio maschile. Ho raccolto qui le mie impressioni, estemporanee e disordinate, sulla città, sulle Olimpiadi e sul calcio. Ringrazio lo staff di Fútbologia per averle ospitate.

Primo tempo

Il mio viaggio a Manchester comincia con una lieta sorpresa: il leggero ritardo dell’aereo impedisce alla RyanAir di infliggermi l’insopportabile motivetto, munito di applauso registrato, che segue ogni atterraggio puntuale.

Ho prenotato una stanza senza curarmi di come fossero i collegamenti con l’aeroporto, con lo stadio, con il centro della città: mi ha conquistato la fotografia del Crown & Anchor – sì, dormirò sopra un pub. La seconda buona notizia della giornata è che il posto è in posizione perfetta, a pochi minuti a piedi dalla stazione collegata con l’aeroporto, dal tram per Old Trafford e dalla zona più moderna interessante di Manchester, il Millennium Quarter. Ma la sorpresa più inaspettata è scoprire, a pochi passi dal pub, la vetrina di… Forbidden Planet!

Il pomeriggio trascorre in esplorazione casuale del quadrante nord-est della città, senza alcuna meta. Da quel che ho letto, a Manchester non c’è granché da visitare, a parte gli stadi dello United e del City che sorgono in periferia, ai due estremi opposti della città. Le icone delle due squadre – con un netto predominio dei Diavoli rossi – sono un po’ ovunque anche in centro, nelle vetrine dei negozi, alle fermate dell’autobus, nei titoli dei giornali locali. L’impressione è che davvero il calcio pervada questa città. Mi colpisce l’eccezione: un pub che nega categoricamente l’ingresso a chiunque indossi i colori di una squadra di calcio (“and that’s that”). Ma in tutti gli altri locali in cui mi imbatto, dal ristorante sofisticato al sordido chiosco pakistano, campeggiano televisori abitualmente sintonizzati sulla Premier League e temporaneamente prestati alle Olimpiadi.

A occhio e croce la gigantesca macchina pubblicitaria del Manchester United, che del resto ospita gli eventi nel suo stadio, è stata riconvertita senza troppi sforzi per la propaganda olimpica. Propaganda che, ovviamente, riguarda esclusivamente gli atleti britannici, pressoché gli unici a essere visibili in televisione in diretta: la BBC non è meglio della RAI, sotto questo aspetto.

Ma alla propaganda e all’imponente macchina organizzativa non corrisponde, mi pare, un analogo livello di interesse da parte del pubblico: le piazze con i maxischermi sono quasi vuote, deserti i baracchini Hope and Glory che venderebbero birra se qualcuno ne comprasse, il merchandise olimpico è svenduto in saldo nei grandi magazzini.

L’ennesima fortunata (e sempre del tutto fortuita) scoperta del mio pomeriggio nel Millennium Quarter è il National Football Museum, aperto appena un mese fa nel suggestivo Urbis Building. L’esposizione sfrutta la curiosa forma triangolare dell’edificio distribuendo su quattro terrazze una serie di notevoli memorabilia che illustrano la storia del calcio britannico – e quindi, diciamolo, delle origini del calcio mondiale: posso ammirare la prima versione manoscritta del regolamento del football, sedermi su un seggiolino originale del vecchio stadio di Wembley, ripercorrere la storia del grande Liverpool e le imprese di Brian Clough. Ben fornito è anche il negozio del museo, dove non manca una copia della storia del calcio italiano di John FootCalcio – o almeno non mancava finché l’ho comprata io: spero di potermela far autografare dall’autore al convegno di Fútbologia a Bologna.

 

Secondo tempo

Martedì mattina piove – e ci mancherebbe, siamo in Inghilterra. Con in corpo bacon, uova, salsiccia e fagioli mi rifugio al People’s History Museum, un interessante documento della storia del movimento operaio britannico, che ha nelle industrie di Manchester il suo cuore più antico: qui nel 1845 Friedrich Engels descrisse La situazione della classe operaia in Inghilterra.

Dopo un veloce omaggio alla prima vera stazione ferroviaria del mondo (Pendolari di tutto il mondo, unitevi!), nel primo pomeriggio decido di spostarmi verso Old Trafford: la partita inizierà soltanto alle 19.45 ma London 2012 ieri mi ha mandato un SMS consigliando di arrivare con largo anticipo, pena il rischio di perdermi l’inizio.

All’ora del tè aprono i cancelli ma non si forma nessuna coda: i non molti spettatori che come me hanno seguito il consiglio degli organizzatori rimangono per lo più fuori dallo stadio a fotografare i monumenti alla Trinità del grande Manchester degli Anni Sessanta, Best-Law-Charlton, e al loro allenatore Sir Matt Busby, il Ferguson degli Anni Cinquanta e Sessanta. Nel frattempo cominciano ad arrivare i folklorstici tifosi brasiliani (rigorosamente bianchi, forse gli unici a potersi permettere la costosa vacanza in Europa) e i più sobri coreani. Gli indigeni, ovviamente la maggior parte, sono perlopiù schierati con i verdeoro: specialmente per i molti ragazzini, è troppo allettante tifare per la squadra più forte.

Sono fra i primi a entrare nel Teatro dei Sogni, mancano ancora due ore all’inizio della partita: la prima mezzora la passo a fotografare gli spalti vuoti da tutte le angolazioni che mi sono consentite, il tempo restante a scrivere scomodamente sul taccuino la prima bozza di questo diario. Intanto gli organizzatori si stanno scervellando per decidere quale sia la denominazione ufficiale della Corea del Sud, dopo che all’esordio avevano sbagliato l’inno (della Corea del Nord) scatenando polemiche: sul tabellone inizialmente è semplicemente “Korea”, poi “Korea Republic” e infine, pochi minuti prima del fischio d’inizio, “Republic of Korea”.

I giocatori asiatici non appaiono scossi dall’incertezza sulla loro esatta nazionalità, dal momento che nel primo quarto d’ora giocano nella metà campo brasiliana, e ci giocano pure bene. Il pubblico è onesto (non credo lo sarebbe altrettanto se giocasse la Gran Bretagna) e applaude le giocate di prima, le verticalizzazioni e i cambi di gioco da una fascia all’altra. Gli scambi lentissimi fra i quattro difensori verdeoro e i loro lanci lunghi rigorosamente preda dei coreani ricevono i meritati fischi di Old Trafford, mentre non riceve l’altrettanto meritato fischio dell’arbitro un gioco pericoloso di Juan Jesus a pochi metri dalla porta: i maxischermi agli angoli delle tribune confermano l’impressione che il rigore non sarebbe stato troppo generoso (personalmente sono a favore della moviola in campo, già averla sugli spalti è una grande comodità per gli spettatori!)

L’attesissimo Neymar in questa fase gioca come me alla Playstation nella modalità Diventa un mito: inseguendo la palla perlopiù invano. Di sicuro mostra una velocità di esecuzione dei movimenti paragonabile a quella del primo Ronaldo e una tecnica notevole, ma immancabilmente al secondo dribbling (quando non direttamente al primo) perde il pallone. Va preso atto che il ragazzo deve avere un consulente di immagine eccezionale, considerati i paragoni con Pelé che si leggono sui giornali – definirli affrettati è un colossale understatement – e la quantità di magliette col suo nome che affollano gli spalti.

Un colpo di tacco particolarmente inutile scatena i buuu dello stadio intero: stadio che nel frattempo si è riempito e offre una prospettiva spettacolare. Tra gli ultimi a prendere posto, nel mio settore, è il più folkoristico dei tifosi brasiliani, che avevo già fotografato prima di entrare. Che fosse seduto di fianco a me era una possibilità su 70.000 (in realtà no, se gli spettatori sono 70.000 è una possibilità su poco meno di 35.000 NdA) – tanti sono i paganti, secondo quanto ci annuncerà lo speaker – che incredibilmente si realizza.

Come per incanto l’arrivo di Sandro – lo stesso nome del migliore dei verdeoro finora – coincide con il cambio di passo dei suoi beniamini, che finalmente cominciano a giocare e hanno un paio di occasioni importanti in 5 minuti. Confesso però che da qui in avanti la mia attenzione è equamente suddivisa tra quel che avviene in campo e quel che combina il mio vicino, il quale prima si entusiasma come un bambino per la ola che fa quattro volte il giro dello stadio, al grido di “Come on, uola!!”, e poco dopo esulta come un pazzo al gol di Romulo, poco prima della mezzora.

Il gol è un gentile regalo del portiere coreano dopo un’azione sontuosa di Oscar, con Neymar che finalmente si limita a passare la palla e portare via l’uomo invece di voler fare tutto da solo. Nella prima mezzora la Corea ha mostrato i suoi due limiti principali: nonostante abbia giocato complessivamente meglio del Brasile, non ha fatto più di un tiro in porta; in compenso alle prime accelerazioni dei sudamericani ha mostrato un’ingenuità difensiva quasi imbarazzante.

I coreani non si scompongono e continuano a giocare in modo piacevole – ma sempre senza inquadrare la porta – per un’altra mezzora, con in mezzo l’intervallo. All’inizio del secondo tempo sono rapinati di un nuovo calcio di rigore, e poco dopo la partita finisce, con mezzora di anticipo. Leandro Damiao segna due volte nel giro di cinque minuti. La prima dopo un’azione travolgente di Marcelo – determinante la sua forza fisica sulla fascia sinistra: le azioni pericolose del Brasile sono partite tutte da lì – proseguita con un bell’assist di Neymar. Il ragazzo non sarà (mai, probabilmente) Pelé, però alla fine della fiera entra pure nell’azione del terzo gol, scaricando su Oscar al termine dell’ennesima azione personale: dopo un rimpallo la palla arriva a Damiao, che la butta dentro di punta.

Contrariamente a quel che farebbe qualsiasi allenatore italiano, sul 3-0 Menezes leva un terzino e mette dentro un attaccante: è il mitico Hulk, idolo dei tifosi del Porto (tra i quali ci sono anch’io, per ragioni che magari racconterò un’altra volta). A proposito di allenatori italiani, sui maxischermi compare per qualche istante Roberto Mancini seduto tra il pubblico, che prontamente lo sommerge di fischi: giusto così.

In campo non succede più nulla di interessante, Sandro non sta più nella pelle e minaccia “London I’m coming!”: non si può che augurargli buona fortuna.
Io saluto Old Trafford, sperando che sia un arrivederci.

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