Punto primo: partiamo dalla storia. Se uno ti racconta una storia, proprio quella storia lì e non un’altra, un motivo ci sarà. Non c’è nessuna ragione logica per sostenere che in realtà la storia è un pretesto, conta solo la messa in scena; il fatto che la messa in scena sia particolarmente curata non autorizza a considerare il racconto un semplice accessorio.
Scrivo questo come promemoria, anche a me stesso: Quentin Tarantino è talmente bravo con la macchina da presa, ha una tale capacità di giocare con i mezzi espressivi del cinema, e ha un gusto così meravigliosamente pop e raffinato allo stesso tempo, che è facile distrarsi a guardare il dito e trascurare invece la luna. Da alcuni commenti a Django Unchained che mi è capitato di leggere, mi pare che più d’uno ci sia cascato, come del resto era in parte capitato a me – me ne accorgo ora rileggendomi – con Bastardi senza gloria.
Partiamo dalla storia allora.
Partiamo dalla storia allora. Siamo nel 1858, “due anni prima della guerra civile“, sottolinea la regia, nel Sud degli Stati Uniti. Il cacciatore di taglie King Schultz, tedesco emigrato nel Nuovo Mondo, compra lo schiavo Django perché è l’unico a poter identificare una famiglia di malfattori ricercati, già impiegati in una piantagione dove il nero aveva lavorato. Entusiasta all’idea di poter vendicare i torti subiti, soprattutto dalla moglie Broomhilda, Django accetta di buon grado l’incarico e, liberato, prosegue l’avventura come assistente di Schultz. Il tedesco, che non ha alcuna simpatia per la schiavitù, si prende a cuore le sorti del nero e lo aiuterà a liberare Broomhilda, nel frattempo venduta schiava a Candyland, il latifondo del ricco possidente Calvin Candie.
In estrema sintesi, abbiamo uno schiavo nero che si libera e massacra i padroni bianchi. Già questo è un buon inizio, e decisamente non scontato (così come secondo me non era scontato neppure il grottesco Machete, che pure si vuole – a mio parere ingiustamente – privo di qualsiasi carica ideologica). Ma il film di Tarantino colpisce per la ricchezza di dettagli e la profondità con cui rappresenta la tragedia del razzismo e, in generale, dello sfruttamento, con uno sguardo straordinariamente acuto, lontano da ogni cliché, sia sugli oppressi che sugli oppressori. Uno sguardo che risalta ancora di più sullo sfondo di quello che, a livello formale, è un western ineccepibile, colorato con le tinte forti del pulp: un film à la Tarantino, insomma. Vediamo alcuni di questi elementi.
Perché non si ribellano?
“Perché non si ribellano?” si chiede Leonardo Di Caprio nei panni di Calvin Candie. E la domanda è rivolta a noi, oggi. La tradizionale risposta razzista è che i neri hanno una predisposizione fisica alla schiavitù; non vale nemmeno la pena replicare, ma il fatto che la biologia non c’entri non toglie che la domanda resti, in tutta la sua attualità: perché non si ribellano? Tarantino non dà la risposta – non ce n’è una semplice – ma sparge alcuni indizi, innanzitutto mostrandoci come gli stessi sfruttati non comprendano la loro condizione. È uno dei temi ricorrenti del film, svolto fin dalla primissima scena (dev’essere Schultz a suggerire agli schiavi di liberarsi e far fuori il padrone disarmato) con tutta una serie di variazioni fra l’esilarante (il siparietto nella tenuta di Big Daddy con la schiava che non concepisce di aver a che fare con un nero non schiavo) e il grottesco (la ripugnante lealtà del nero Stephen nei confronti del padrone Candie).
La questione, gira e rigira, ruota sempre intorno alla coscienza di classe: Django è davvero “quel negro su diecimila” che ha compreso pienamente la necessità di spezzare le catene. Si tratta di farlo capire agli altri 9.999, sapendo che inizialmente molti di loro faranno addirittura resistenza e si schiereranno col padrone. Il sorriso di comprensione dello schiavo liberato dal protagonista sulla strada per le miniere è la speranza: potranno ribellarsi solo quando saranno in tanti a sorridere e capire che, come Django, non hanno niente da perdere se non le proprie catene.
L’unico padrone buono…
Si può sorridere, e a tratti ridere a crepapelle (meravigliosa la scena dell’assalto notturno di uno sgangherato gruppo di antesignani del Ku Klux Klan al carro del dottor Schultz, con tanto di flashback e dialoghi davvero tarantiniani) dei padroni bianchi descritti da Tarantino. Fondamentalmente, li dipinge tutti o quasi come degli idioti avidi e violenti: esattamente come nella realtà.
Ma nello sguardo del regista non c’è nessuna indulgenza, e non ci consente mai di dimenticare che questi sono i cattivi e che tutti, dal primo all’ultimo, meritano la brutta fine che faranno. È significativa l’asimmetria nella descrizione della violenza, ed è geniale il modo in cui, anche qui, Tarantino fonde il suo stile più riconoscibile con il messaggio che intende trasmettere. La violenza dei buoni è caricaturale, pulp, nella più classica tradizione tarantiniana: sangue che schizza ovunque, teste esplose, tutto il solito armamentario. Quella esercitata dai padroni invece ci viene mostrata in tutto il suo realismo, con crudezza spietata e studiata, per impressionarci davvero – così come ne vengono impressionati i protagonisti: la “fornace” in cui è rinchiusa per punizione Broomhilda, l’immagine dello schiavo dato in pasto ai cani che ricorre e sconvolge i pensieri di Schultz.
La violenza vera è quella di chi opprime, non quella di chi resiste all’oppressione. Con tanti saluti a tutta l’ipocrita retorica sulla non-violenza.
Lezioni di tedesco
Il motore dell’azione, per gran parte del film, è il dottor King Schultz, la mente che progetta i piani, il liberatore e mentore di Django. Suo è anche il punto di vista della narrazione, il personaggio in cui lo spettatore è portato a immedesimarsi e per cui fin dalla prima scena prova simpatia. King Schultz, un tedesco. Interpretato fra l’altro da quel favoloso Christoph Waltz che già aveva recitato nel ruolo di un altro tedesco, il cacciatore di ebrei Hans Landa, in Bastardi senza gloria. Il rovesciamento non potrebbe essere più totale: lì un gruppo di ebrei americani ammazzava i tedeschi malvagi; qui è un tedesco “buono” ad ammazzare americani razzisti. Di più, attraverso la sensibilità di Schultz (che “non è abituato a vedere un uomo sbranato dai cani“) Tarantino crea un parallelo diretto fra la crudeltà degli schiavisti bianchi e il Male Assoluto, quello dei nazisti, un peccato originale con cui anche la storia degli Stati Uniti deve confrontarsi.
Volutamente non parlo neppure di quanto siano bravi gli attori, da Christoph Waltz a Jamie Foxx, da Leonardo di Caprio a Samuel L. Jackson; non c’è neppure bisogno di descrivere quanto siano curate la messa in scena, le coreografie, tutti i dettagli; non dirò nulla della fotografia (e ci mancherebbe), della scelta delle inquadrature e di tutte quelle cose lì in cui Tarantino è un maestro. A Django tutto sommato non interesserebbero molto. Non ora che è libero, non ora che ha la pistola.
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