Tutti hanno visto Salvate il soldato Ryan, un film memorabile per due motivi: la scena iniziale dello sbarco in Normandia e quella finale con le bandiere a stelle e strisce che garriscono al vento nel cimitero militare. In mezzo, la vicenda insensata di un gruppo di soldati americani che girano come dementi nella Francia ancora occupata dai nazisti alla ricerca del maledetto Ryan, che va salvato a ogni costo dopo che la sua famiglia ha già perso in guerra tutti i suoi fratelli.
Fu dopo aver visto questo film che con Mauro coniammo il tormentone Chi salva una vita non serve a un cazzo: il riferimento era ovviamente al celeberrimo motto di Schindler’s List, di cui non sto nemmeno a sintetizzare la trama tanto è famosa. La morale dei due film di Spielberg infatti è la stessa: di fronte al male e all’oppressione, un singolo atto individuale può davvero fare la differenza. Be’, non è così. Chiedetelo al resto del “mondo intero”, quello che non è stato salvato da Liam Neeson o da Tom Hanks, se hanno fatto più differenza dei singoli atti caritatevoli o i carri armati sovietici, tanto per fare un esempio.
Ma c’è un’idea un po’ meno immediata in quei film di Spielberg, e ancora più diseducativa: l’idea che si possa cambiare la società senza sovvertire il sistema costituito. Isolando dal contesto della guerra quegli episodi singolari, passa il concetto che se il nazismo è stato sconfitto è stato perlomeno anche grazie al coraggio del capitalista buono e all’umanità dei soldati americani verso i propri compagni: l’accento posto su quel “salvare una vita” di Schindler significa esattamente questo.
Con Lincoln, che purtroppo non è affatto il sequel del Cacciatore di vampiri, Spielberg torna a ribadire il punto, più esplicitamente che mai. Non discuterò qui della qualità cinematografica del film, se non per dire che mi sono addormentato due o tre volte e che Martina – che pure entrava gratis – mi ha insultato per tutta la strada al ritorno per averla trascinata a vederlo; per il resto, non è una novità che quel regista sappia tenere in mano una telecamera meglio di tanti altri, che Daniel Day Lewis sia un grande attore (doppiato orrendamente) e bla bla bla.
Ma veniamo alla sostanza. Siamo nel 1865, la Guerra Civile volge al termine, mentre alla Camera dei Rappresentanti si discute dell’approvazione del 13° Emendamento alla Costituzione, che sancirà l’abolizione della schiavitù. Per il Presidente, appena rieletto, è fondamentale che l’emendamento passi prima della conclusione della guerra, al termine della quale, con la riunificazione degli Stati del Sud, non ci sarebbero i voti sufficienti. Anche così, per ottenere la maggioranza qualificata che gli occorre, è costretto a “comprare” i voti di alcuni deputati Democratici (rispetto a oggi, il ruolo dei due partiti era profondamente diverso, nell’occasione sostanzialmente rovesciato: Lincoln era del resto un Repubblicano). Come tutti sappiamo, riuscirà effettivamente nel suo intento.
Siccome Spielberg non è uno stupido, non lascia che ci sfuggano le evidenti contraddizioni di questa condotta: pur di ottenere l’abolizione della schiavitù, Lincoln è disposto a mentire e a corrompere, ma soprattutto consente che la guerra prosegua ancora, aggiungendo altre migliaia di morti al bilancio già sanguinoso. E perfino sull’utilità dell’abolizione della schiavitù si allungano delle ombre, quando, in almeno un paio di passaggi, gli stessi schiavi si mostrano piuttosto indifferenti alla questione: sanno che non finirà comunque l’oppressione, non ci sarà alcuna autentica uguaglianza. Il personaggio centrale, sotto questo aspetto, è quello del Repubblicano radicale Thaddeus Stevens, che nel momento cruciale dichiara pubblicamente di credere all’uguaglianza legale, ma non a quella sostanziale fra le razze, ottenendo così il voto degli ultimi indecisi.
Ma per quanto le contraddizioni siano evidenti, al momento del dunque il dado è tratto e il giudizio è senza tentennamenti: tutto è lecito per il fine superiore di abolire formalmente la schiavitù, Lincoln è un eroe e lo è pure Stevens, ritratto mentre dorme teneramente insieme alla sua governante di colore dopo l’approvazione dell’emendamento. Poco importa che, per una donna trattata umanamente dal suo ex padrone, in milioni dovranno subire ancora per un secolo e passa ogni forma di discriminazione: l’importante è il passaggio parlamentare, la democrazia formale, la rappresentazione di un sistema capace di progredire senza mettere davvero in discussione i suoi presupposti economici e sociali. Paradossalmente, anzi, l’abolizione della schiavitù è esplicitamente descritta come lo strumento grazie al quale il sistema economico degli Stati del Nord si imporrà definitivamente su quello sudista: un modo per rafforzare un sistema che dunque è implicitamente buono, almeno rispetto a quell’altro.
È legittimo pensarla così, e forse è anche un ottimo modo per scaricarsi la coscienza, credere che non ci siano alternative migliori al sistema in cui viviamo, che sia giusto lottare per migliorarlo ma non ci siano spazi né ragioni per cambiarlo.
Personalmente, trovo più realistico e più educativo il punto di vista di Django: è libertà solo quando gli oppressi spezzano da sé le proprie catene, strappando la frusta dalla mano degli schiavisti, non quando un decreto dello Stato cambia il nome alla schiavitù. Così come mi appassiona di più un pugno di soldati americani dietro le linee tedesche a caccia di scalpi nazisti, invece che del soldato Ryan: Chi salva una vita non serve a un cazzo lo facciamo girare a Quentin Tarantino.
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