Primo Maggio 2013: mentre nelle piazze si celebra la Festa dei Lavoratori, il governo prepara la festa ai lavoratori. Scusate la battuta banale, ma ho esaurito il senso dell’umorismo con il titolo del post.
L’allegria del concertone non mi aveva proprio contagiato quest’anno, ma anche quel poco era già svanito ieri mattina leggendo questo articolo sul Sole24Ore: si sapeva fin dall’inizio che per quanto la riforma Fornero fosse drammatica ci sarebbe stato sempre il modo per peggiorare le cose. E si sapeva pure che, dopo un paio di mesi di gioiosa ingovernabilità, la prima cosa a cui avrebbe pensato il nuovo esecutivo sarebbe stata proprio peggiorarle. Insomma, la stabilità del governo serviva proprio a cancellare quel poco di stabilità del lavoro che ancora era rimasta.
Che il nuovo ministro del lavoro fosse proprio uno di quei “saggi” che un mese fa avevano auspicato la riduzione del costo del lavoro anche attraverso la liberalizzazione dei contratti a termine, non era un buon segno. La conferma è arrivata fin dal discorso inaugurale di Enrico Letta, che ha subito ripreso quell’auspicio e l’ha trasformato in intenzione. Ecco dunque che cosa ci aspetta: la riduzione degli intervalli obbligatori fra un contratto e l’altro (il loro aumento era forse l’unico aspetto positivo della riforma dello scorso anno) e l’abolizione dell’obbligo di indicare la causale del contratto (già fortemente limitato dalla Fornero), sostituito forse da percentuali facilmente aggirabili di assunzioni a termine.
A che cosa servono queste due tutele? L’impossibilità di stipulare con lo stesso lavoratore più contratti a termine in rapida successione rende più complicato per le aziende, almeno in teoria, utilizzare precari per mansioni stabili. Sempre teoricamente, s’intende, l’obbligo di specificare i motivi tecnici, organizzativi, produttivi o sostitutivi (il “causalone”, secondo una buffa terminologia tirata fuori da chissà dove in questi giorni per rendere più “simpatica” e meno preoccupante la proposta) per cui si assume a tempo determinato e non indeterminato serve allo stesso scopo, ossia di evitare l’utilizzo di precari quando non c’è ragione di utilizzarli. In pratica, si dovrebbero assumere dipendenti a termine solo quando c’è un’esigenza temporanea; quando invece serve assumere qualcuno stabilmente, il contratto dovrebbe essere a tempo indeterminato: se poi l’esigenza stabile viene meno successivamente, il datore di lavoro può sempre licenziare – cosa che non è mai stata così facile come dopo la riforma Fornero.
(vado un po’ fuori tema, ma aggiungo che se l’esperienza quotidiana del dilagare della precarietà è così lontana dalla teoria è a causa del fatto che sono in pochi, per paura o scarsa conoscenza dei propri pur scarsi diritti, i precari che fanno causa ai propri sfruttatori)
In pratica, la proposta del governo è di consentire sempre e comunque ai datori di lavoro di assumere a tempo determinato invece che a tempo indeterminato, praticamente senza soluzione di continuità fra un contratto e l’altro e dunque anche formalmente del tutto a prescindere da qualsiasi esigenza temporanea.
L’altro obiettivo è l’apprendistato: siccome non è bastato, con la riforma Fornero, abbassare i già ridicoli limiti e consentire di assumere più apprendisti di quanti siano i dipendenti già formati, per giunta con la facoltà per il datore di lavoro di “autocertificare” di aver svolto le attività formative obbligatorie, ecco il passo successivo: consentire di assumere nuovi apprendisti anche senza aver stabilizzato quelli “vecchi” al termine dell’apprendistato. Dunque si accetta l’idea che un’azienda possa funzionare costantemente con gran parte del personale sottopagato (gli apprendisti prendono fino al 60% della retribuzione ordinaria) e precario (al termine del periodo di apprendistato, dopo due o tre anni, potranno essere sostituiti con altri apprendisti altrettanto sottopagati, in un ciclo continuo).
Già l’anno scorso Elsa Fornero cercò di spacciare il drastico taglio ai diritti, di fatto un vero regalo alle aziende grandi e piccole, come uno strumento per rilanciare la crescita economica. Si è visto quanto sia cresciuta l’economia in questo anno: disoccupazione alle stelle e corsa al ribasso dei salari sono anche un effetto della sua riforma. Ora ci prova Enrico Letta a sostenere che se la disoccupazione dilaga è colpa del “causalone”, e che la soluzione sarà la liberalizzazione della precarietà.
I giornali sono già all’opera per instillare questa assurda convinzione nell’opinione pubblica: da qualche parte si deve cominciare a fare controinformazione, a ricordare a quelle stesse persone che la subiscono ogni giorno che più flessibilità significa solo meno lavoro e lavoro peggiore; che la precarietà non aiuta a uscire dalla crisi, ma la rende solo più acuta e più estesa. Comincio io.
Come scritto in un famoso libro di Rigoni Ster, uso la frase, “forza e corajo scëk!”.
E se l’ ho scritto male mi scuso, tradotto il bergamasco o bresciano che sia, “forza e coraggio ragazzo!”