Nella foto, il direttore delle risorse umane di una multinazionale giapponese esibisce due neo-assunti: finalmente le imprese straniere investono in Italia!
Per la serie Facciamoci del male, da qualche tempo seguo su Twitter il profilo del Senatore Pietro Ichino (@PietroIchino, se qualcuno fosse interessato). È per questo motivo che oggi ho potuto leggere questo articolo, a firma Edoardo Narduzzi, che il prof. ha ripreso dalla rivista ItaliaOggi e pubblicato sul proprio sito.
Ichino, per il solo fatto di essere fra i pochi commentatori che perlomeno sa di che cosa parla, può ben considerarsi uno dei più beceri ultrà della precarizzazione totale del lavoro. Forse indispettito dal non essere stato nominato ministro, pur senza metterci la firma, con questo pezzo attacca da destra il governo (che pure sostiene direttamente, all’interno di Scelta Civica), colpevole di non aver ancora reso possibile, per gli imprenditori, licenziare un lavoratore solo perché ha un cognome buffo (o, più frequentemente, perché lavorando in azienda da vent’anni ha uno stipendio più alto di uno stagista).
La tesi di Narduzzi/Ichino la cito per esteso:
Attraversare una crisi tanto profonda con gli attuali vincoli del mercato del lavoro condanna senza appello la competitività italiana. I capitali esteri non arrivano e le imprese domestiche non possono riorganizzare con la necessaria profondità la loro struttura produttiva. Significa anche sprecare l’opportunità riformista offerta dalla crisi e continuare a illudersi che, nel mercato globale contemporaneo, esista la possibilità di stabilizzare per legge il lavoro. Vuol dire condannare la produttività a restare scarsa, perché un lavoratore il cui posto è contendibile è sicuramente più produttivo di uno «assicurato» dall’art. 18 e perché sono i lavoratori più giovani, quelli in Italia lasciati ai margini del mercato, che sanno e possono usare al meglio le nuove tecnologie, cioè quelle che accrescono la produttività media aziendale.
I “vincoli attuali” di cui parla l’autore sono quelli che la Fornero si è dimenticata di levare. La riforma dell’anno scorso, lo si diceva all’epoca, non interveniva sui casi in cui è possibile licenziare, limitandosi a diminuire radicalmente le sanzioni per i licenziamenti illegittimi. Il risultato è, a distanza di 12 mesi, un aumento sensibile dei licenziamenti, grazie alla promessa di sanzioni miti, con esclusione, nella maggior parte dei casi, della reintegrazione.
Ma non basta, e al governo di larghe intese si chiede di eliminare non solo le sanzioni, ma proprio i casi in cui il licenziamento è pur sempre considerato illegittimo [qui Ichino preciserebbe che senz’altro il progetto non riguarda i casi di discriminazione – peraltro quasi mai dimostrabili come tali: è un’ipotesi statisticamente irrilevante]: deve essere consentito licenziare chiunque con la motivazione arbitraria (e dunque di fatto senza motivazione) di “non essere abbastanza produttivo”. Le prime vittime di una riforma del genere – Narduzzi/Ichino non ha neppure il pudore di addolcire la pillola – saranno i lavoratori meno giovani, assunti a suo tempo con condizioni economiche e normative migliori e quindi meno convenienti rispetto all’ultima infornata di precari abituati allo sfruttamento peggiore.
Del resto, non si può sprecare “l’opportunità riformista” della crisi economica! Altro che lamentarsene continuamente, si dovrebbe sfruttarla per dare la spallata finale ai diritti dei lavoratori. Che poi, diciamolo, la crisi è colpa dei lavoratori che sono poco produttivi perché troppo tutelati: levar loro la sicurezza del posto di lavoro – come se oggi fossero in molti ad averla! – è il modo giusto per rilanciare l’economia.
Ecco, quando sentirete Letta o Giovannini parlare della necessità di rilanciare l’occupazione giovanile, tenete sempre presente che è questa la loro agenda. Non a caso in questi giorni il capo del governo ha ribadito la volontà di ridurre al più presto i periodi che devono intercorrere fra un contratto a termine e l’altro con la stessa azienda: che cosa significa? Rendere perfettamente fungibili, sotto il profilo dell’operatività aziendale, lavoratori stabili e precari e togliere così l’ultimo velo alla finzione che i contratti a tempo determinato debbano essere stipulati solo quando c’è un’esigenza temporanea.
L’obiettivo, da completare con l’annunciata abolizione dell’obbligo di motivare l’assunzione temporanea è trasformare il mercato del lavoro in un’asta al ribasso, in cui ottiene il posto chi si vende a meno. Non a caso è prevista anche la riforma dei centri per l’impiego: si trasferiranno direttamente nei mercati del pesce.
Ma produrre per chi, poi? Produrre cosa, visto che già oggi si fatica a comprare il necessario. L’idea di copiare il mercato cinese a costi del lavoro del Bangladesh è misura della cecità intellettiva di questi esimi professori del nulla…