“Ciao, ti ricordi qual è il punto più alto che abbiamo raggiunto sulle Dolomiti di Brenta due anni fa? Per caso abbiamo fatto una ‘via del camino’?“.
“Boh, sarà stato 2700, non ricordo, dovrei rivedere le mappe. Abbiamo fatto i sentieri Benini e Sosat, non la via del camino“.
Rebus si sbaglia di poco, sull’altezza: il sentiero Benini, scopro in rete, tocca quota 2910 metri. La raggiunsi insieme a due amici più esperti nell’agosto 2011, alla mia prima escursione alpina. Ricordo che arrivai stremato, dopo non meno di 7 ore tra cammino e ferrata (secondo il CAI ne occorrono 4 e mezzo), incapace di muovere anche solo un passo in più.
Non saprei dire come arrivò Felice Benuzzi sulla cima Tosa, ben oltre i 3000 sulle stesse Dolomiti di Brenta, quando la raggiunse nell’estate del 1924, ma immagino che a 14 anni fosse un alpinista ben più capace di me a 31, dal racconto che ne fanno Wu Ming 1 e Roberto Santachiara nel loro Point Lenana.
Chi fosse Felice Benuzzi è proprio l’argomento del libro, che ne percorre le vicende ricomponendo una serie di tracce e documenti, che sono allo stesso tempo collegamenti, link a pagine di Storia più o meno rimossa, e di storie poco note: soprattutto storie di montagne.
Il primo indirizzo, la pagina da cui comincia e che costituisce il vero motore della ricerca e della narrazione, è un altro libro: Fuga sul Kenya (No picnic on Mount Kenya, nella sua edizione – non mera traduzione – inglese), in cui Benuzzi racconta della fuga, sua e di altri due compagni, da un campo di prigionia britannico in Africa Orientale durante la seconda guerra mondiale, con il solo fine di scalare il vicino monte Kenya per poi tornare e riconsegnarsi ai propri carcerieri.
Perché questo libro? Tutta una serie di indizi, dall’argomento – l’impresa eroica di “coloni” italiani in barba ai perfidi albionici, con tanto di tricolore issato sulla punta Lenana – alla casa editrice della prima pubblicazione, al (modesto) uso propagandistico che della vicenda venne fatto in pieno conflitto, “puzzano” di fascismo. Eppure altri elementi stridono con questo comodo pregiudizio, primo fra tutti il successo dell’opera all’estero, specialmente nei paesi anglosassoni, molto maggiore della sua celebrità in Italia. E poi basta sfogliarne le prime pagine per rendersi conto che il libro di Benuzzi ha toni tutt’altro che epici o retorici, è ricco di sensibilità e di pietà.
Il contrasto fra il contesto a cui ci si aspetta che Fuga sul Kenya debba appartenere e l’effettivo carattere del libro è stridente, ed è uno stridore fecondo: le tracce di Felice Benuzzi, nato suddito dell’imperatore d’Austria e Ungheria, trasferito da piccolo nella Trieste prima asburgica e poi italiana, quindi avviato alla carriera di funzionario civile nei territori dell'”impero” italiano in Africa, introducono e intersecano una narrazione suggestiva dell’epoca fascista. Si comincia a Trieste, che con la sua tradizione irredentista e il nazionalismo interessato della grande borghesia, è fin dal Biennio Rosso una vera e propria palestra di quello che sarà il regime e aiuta a capirne origini, sostegno, declino; ma come tutti i territori di confine, al crocevia di popoli e di lingue, di mare e di montagne, la Venezia Giulia riassume in sé le contraddizioni e la complessità che caratterizzano tutto il racconto di WM1 e Santachiara.
Se la vita di Felice Benuzzi è uno dei percorsi, l’altro sentiero che parte dalla fuga sul monte Kenya è quello che conduce in montagna e attraversa tutti i temi raccontati: è un filtro originale e affascinante attraverso cui osservare il fascismo nella sua ascesa (la montagna come simbolo di purezza ed eroismo nella propaganda del regime, la fascistizzazione del CAI epurato da alpinisti ebrei e slavi) e nella sua caduta (le montagne della Resistenza).
La montagna, oltre che cornice narrativa, è la chiave anche stilistica del libro. La stesura di Point Lenana appare un’impresa simile all’ascesa alla Punta Lenana: la sfida a un tema complesso e ricco di sfaccettature, la lunga preparazione, la ricerca degli strumenti necessari, ricordano l’approccio di un alpinista alla parete da scalare. E arrivati in cima, dall’alto, è più facile gettare lo sguardo in basso e ricomporre i pezzi del puzzle. Si può procedere a piacimento, in avanti o indietro nel tempo, cambiando registro e punto di vista, passando dal dialogo al documentario, “montando” la storia come se fosse un film a più voci.
Dopo un veloce passaggio nella Roma che negli anni Trenta si autoproclama capitale di un impero – l’impero più sfigato della storia, sicuramente – il cursus honorum di Benuzzi prosegue in Africa, ed è l’occasione per descrivere l’Italia fascista nella sua compiutezza. Soprattutto, la figura di Benuzzi consente di mettere in luce e cercare di spiegare il legame fra il regime e i cittadini: un rapporto molto più complesso di quanto venga spesso rappresentato (con la tesi del “consenso di massa” quasi incondizionato almeno fino alla guerra), fatto certamente di subordinazione e compromessi, ma allo stesso tempo, in casi tutt’altro che isolati, di gesti individuali di rifiuto, che costituiscono i precedenti necessari per comprendere il sostegno collettivo che avrà successivamente la Resistenza.
Un lavoro di ricerca colossale sostiene la descrizione minuziosa delle atrocità del regime, dalla sua ascesa fino ai suoi ultimi sussulti, attraverso le deportazioni di massa, il genocidio della popolazione libica, lo sterminio di quella etiope, con l’utilizzo delle armi chimiche vietate da ogni convenzione internazionale per la loro crudeltà. Del resto il progetto, documentato, di deportazione di massa della popolazione slovena nei territori slavi occupati durante la guerra, non ha davvero nulla da invidiare ad altre analoghe “soluzioni finali”.
Viene così smontata pezzo per pezzo la narrazione costruita e rinforzata da decenni di rimozione collettiva del “colonialismo dal volto umano” e del “fascismo sostenuto da un consenso di massa fino alla guerra”: una narrazione iniziata praticamente dal giorno stesso della caduta di Mussolini, considerato da troppi l’unico responsabile di tutto ciò che non è possibile “giustificare” in un comodissimo scarica-barile, proseguita dopo la guerra con il reinsediamento del personale fascista nelle questure e nelle prefetture, galvanizzata dall’amnistia concessa da Togliatti fin dal 1946.
[“Voglio… amnistiare i fascisti“, recitava un post-it appeso da un anonimo trotzkista nel circolo del PRC di Pavia durante la campagna di Bertinotti per le primarie dell’Unione nel 2005].
Contro una memoria ricostruita a uso e consumo delle larghe intese, inquinata dal revisionismo sempre più istituzionale, Point Lenana è una sorprendente boccata di aria pulita: aria di montagna, appunto. Approfittiamone, perché non capita spesso di respirarne.
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