Qui non ci si può distrarre un momento, neppure ad agosto. Anzi, specialmente ad agosto, quando tra una leggina e l’altra ti inseriscono di nascosto clausolette e modifiche camuffate, concepite apposta per sfuggire anche agli osservatori più attenti, ma con conseguenze potenzialmente devastanti su intere categorie di lavoratori.
Confesso dunque di essermi perso per strada il comma 7 dell’art. 24-bis della legge 7 agosto 2012, n. 134, inserito in sede di conversione del cosiddetto “decreto sviluppo”, che riguarda i contratti a progetto nel settore dei call center outbound (ossia quelli in cui le telefonate si fanno, non si ricevono). Cerco di rimediare ora, meglio tardi che mai.
I lavoratori dei call center outbound erano nel mirino da parecchi anni, almeno dal 2006, quando il ministro del lavoro Cesare Damiano (PD) aveva introdotto con una circolare ministeriale l’assurda distinzione tra attività inbound, necessariamente subordinate, e outbound, legittimamente a progetto – come se chi fa le telefonate (secondo elenchi e tempistiche prefissate e non modificabili) potesse davvero essere considerato come un lavoratore autonomo!
Rimaneva però, come per tutti i contratti a progetto, il vincolo che la prestazione fosse riconducibile a un progetto specifico, indicato per iscritto nel contratto e poi effettivamente svolto: proprio la genericità o l’assenza del progetto, o lo svolgimento in concreto di attività estranee ad esso, sono sempre stati i principali motivi per cui la maggior parte dei contratti a progetto impugnati davanti al giudice del lavoro sono stati dichiarati illegittimi e convertiti in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Con il decreto sviluppo è avvenuto il salto di qualità. La legge, a prima vista piuttosto oscura, modifica la disciplina (contenuta nella “legge Biagi”, il decreto legislativo 276/2003) eliminando l’obbligo di indicazione e riconducibilità a un progetto, per le “attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzate attraverso call center ‘outbound’ per le quali il ricorso ai contratti di collaborazione a progetto è consentito sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento“.
Altro agosto e altro regalo: nel 2013, con la conversione del “decreto del fare”, il nuovo governo ha voluto precisare, tanto per evitare equivoci, che “L’espressione ‘vendita diretta di beni e di servizi’, contenuta nell’articolo 61, comma 1, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si interpreta nel senso di ricomprendere sia le attività di vendita diretta di beni, sia le attività di servizi“.
Che cosa significa? In sostanza questo: in tutti i casi in cui la contrattazione collettiva fissa il compenso minimo che dev’essere riconosciuto ai lavoratori a progetto, in questo specifico settore, è lecito impiegare lavoratori a progetto… senza progetto. Di fatto, i lavoratori sono utilizzabili su qualsiasi commessa, proprio come subordinati, ma senza le tutele dei subordinati – ferie pagate, malattia, tredicesima, TFR, tutele in caso di licenziamento illegittimo, indennità di disoccupazione (ASPI) in caso di licenziamento.
Che una modifica come questa sia inserita tra le “misure urgenti per la crescita del paese” e tra le “disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia” – come se la crescita del paese e il rilancio dell’economia potessero mai basarsi sui call center – è del tutto incomprensibile e la dice lunga sul modello di sviluppo che hanno in mente i nostri legislatori e governanti, dal PD al PdL senza eccezioni di sorta.
Che cosa comporti questa riforma invece è chiarissimo: proporre una causa per ottenere in tribunale l’accertamento della natura subordinata del rapporto e la conversione del contratto, nel caso di contratti a progetto per call center outbound “autorizzati”, rimarrà possibile, ma sarà molto più difficile, dovendo provare nei fatti – spesso senza poter nemmeno contare su testimoni affidabili, perché tutti sono ricattabili – che il rapporto si è svolto in concreto come un normale lavoro subordinato.
Insomma, siamo di fronte a una fregatura colossale per centinaia di migliaia di lavoratori precari, ad opera di quello stesso governo che nemmeno un mese prima aveva millantato di aver introdotto, con la riforma Fornero, vincoli e tutele più stringenti proprio (e di fatto solo) per i contratti a progetto.
La questione ha cominciato a porsi in questi mesi (ecco spiegato il silenzio precedente), al momento dei rinnovi dei contratti collettivi di settore. Non sorprende che le associazioni padronali premano per fissare compensi che li autorizzino a utilizzare lavoratori a progetto senza più limitazioni. Si potrebbe pensare che le organizzazioni sindacali stiano perlomeno trattando per ottenere compensi più alti, ma a quanto pare non è così. Anzi, l’UGL si è affrettata a firmare un accordo che prevede un compenso minimo di 450 Euro al mese oltre a una parte variabile in relazione ai risultati, mentre i sindacati confederali nel settore delle telecomunicazioni hanno stipulato in agosto un accordo che prevede un compenso orario pari a una frazione di quello previsto per i dipendenti di secondo livello – dal 60% nel 2013 fino al 90% nel 2017 – mentre solo dal 2018 il compenso orario dovrebbe essere allineato a quello dei lavoratori subordinati.
Oltre tutto, quand’anche il compenso orario fosse uguale, il lavoratore a progetto perderebbe tra ferie, permessi, tredicesima e TFR oltre il 25% del salario che spetta a un dipendente: per ottenere una tutela almeno paragonabile occorrerebbe quindi trattare sulla base del compenso annuale. Ma di questo sembra non accorgersi nessuno.
E d’altronde nessuno sembra proprio accorgersi della partita in corso e della posta in gioco, che meriterebbe tutt’altro clamore e rabbia. Non è ancora – non è mai – troppo tardi per cominciare a incazzarsi.