Mi ero ripromesso di aspettare a commentare il Jobs Act promesso da Matteo Renzi fino a quando non fosse stato divulgato il testo integrale del progetto, o almeno della bozza. Ma dal fatidico annuncio sono passate ormai tre settimane senza che si sia andati oltre quei pochi slogan dati in pasto ai telegiornali dell’8 gennaio. Nel frattempo, questo “sommario” è stato apprezzato, condiviso, criticato (poco), più o meno a priori. Infine, la settimana scorsa, è stato “recepito” dal governo, che secondo Repubblica intenderebbe approvare entro l’estate un “piano per il lavoro” che sia una sintesi delle proposte contenute nel Jobs Act con quelle, sulla stessa linea, presentate dal nuovo centrodestra e da Pietro Ichino di Scelta Civica. Povero (si fa sempre per dire) Ichino! Anni di lavoro spesi a studiare la materia, escogitare dettagliati progetti di legge per consentire al padronato di sfruttare meglio i lavoratori, farsi sbeffeggiare dall’Avvocato Laser, e adesso arriva Renzi e con due righe si ruba tutta la scena! Tranquillo Pietro, ti vendico io.
Leggiamole allora queste due righe, partendo dalle premesse. Punto di partenza: l’Italia ha tutto per farcela. Colpa di chi ha governato finora se non ce la fa, e su questo si può pure essere d’accordo, se non fosse che Renzi rappresenta gli stessi interessi, ha lo stesso programma di tutti gli altri. Come ce la farà dunque l’Italia, secondo il segretario del PD? Un cambiamento radicale è possibile partendo dall’assunto che il sistema Paese ha le risorse per essere leader in Europa e punto di attrazione nel mondo. E che la globalizzazione non è il nostro problema, ma la più grande opportunità per l’Italia. Un mondo piatto, sempre più numeroso e sempre più ricco, che ha fame di bello, quindi di Italia. Che cosa significa? Ci torneremo, per adesso andiamo avanti.
La “bozza”, come piuttosto impropriamente è stata definita questa sbrodolata, è suddivisa in tre parti, dedicate rispettivamente al “sistema”, ai “nuovi posti di lavoro” e alle “regole”.
La parte relativa al sistema è suddivisa a sua volta tra le ovvietà demagogiche e le cazzate demagogiche: fondamentalmente il “piano” consiste nel tagliare i costi aziendali per energia, tasse e burocrazia. Se sulla sostituzione delle Camere di Commercio (semiprivate) con enti pubblici di controllo si può astrattamente anche essere d’accordo (in fondo rispetto al feudalesimo pure un modesto passo verso il capitalismo può funzionare), sul taglio dei costi energetici e fiscali rimane un grosso punto interrogativo: dove si recuperano quei soldi? Chi pagherà quei costi in più? Alla fine, finché la produzione rimane privata, è sempre una questione di come si distribuiscono le risorse: se le metto di qua, dovrò toglierle di là. Di là dove? Possiamo solo immaginarlo.
In tutto ciò, l’intruso è la proposta di eliminazione della figura del dirigente a tempo indeterminato nel settore pubblico: a che cosa serve? Essenzialmente, a rinsaldare il controllo della politica (nazionale, regionale, cittadina) sulla pubblica amministrazione: per esempio, il sindaco neo-eletto nomina da capo tutti i dirigenti comunali, mettendosi gli amici suoi in modo che non gli rompano le balle qualsiasi porcheria cercherà di fare. Fa il paio con l’altra proposta sulla Burocrazia: i Sindaci decidono destinazioni, parere in 60 giorni di tutti i soggetti interessati, e poi nessuno può interrompere il processo. Nessuno, neppure la magistratura (eliminazione della sospensiva nel giudizio amministrativo). Commentate voi.
Ma finalmente siamo alla parte che ci interessa: I nuovi posti di lavoro. È brevissima: infatti contiene soltanto i nomi dei settori in cui si dovrà intervenire con indicazione delle singole azioni operative e concrete necessarie a creare posti di lavoro. Che delusione! Qualche indicazione però c’è: i primi due settori elencati, e dunque forse le priorità, sono Cultura, turismo, agricoltura e cibo, e Made in Italy (dalla moda al design, passando per l’artigianato e per i makers). Pare di capire che Renzi veda l’Italia come una gigantesca e permanente Fiera dell’Artigianato: in quest’ottica del resto si stanno già muovendo alcuni dei suoi grandi sostenitori, come Oscar Farinetti a Bologna. Ecco anche spiegato il riferimento delle premesse: l’idea di fondo è non solo e non tanto aumentare il turismo, ma “rendere tutto turismo”. Qual è la conseguenza, in termini di lavoro? La faccio breve: aumentare (ancora!) la precarietà, diminuire (ancora!) i salari. Il turismo è il settore che già adesso più di ogni altro consente la massima flessibilità del lavoro, con contratti a chiamata “per servizi speciali”, ossia anche per tre giorni, senza onere di giustificazione e senza limite di reiterazione. È del tutto verosimile che saranno previste ulteriori deroghe per occasioni “particolari” come Expo 2015: insomma, è davvero il lavoro “peggiore”, e infatti l’obiettivo del padronato e dei suoi rappresentanti è generalizzare quel modello.
Infine, le regole. Ecco i due mantra: semplificazione delle norme e riduzione delle varie forme contrattuali. Nulla da ridire in astratto, ma quali norme vengono tagliate, e quali forme contrattuali eliminate? Ecco: processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti. Qui, ancora una volta, bisogna chiarire, perché nel dibattito pubblico si gioca sempre con le parole.
Il contratto a tempo indeterminato è una vera forma di stabilità soltanto se il licenziamento illegittimo è sanzionato duramente. Il licenziamento legittimo, per motivi soggettivi o per motivi economici, è sempre possibile con poco, pochissimo o nessun preavviso, salvo l’obbligo di dimostrare che il licenziamento è giustificato. Parlare di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, quindi, non può significare nient’altro che autorizzare per un certo periodo di anzianità (quale? non c’è scritto ovviamente) il licenziamento ingiusto, eliminando o riducendo le sanzioni.
Del resto, sono anni che gira sempre la stessa proposta, sempre avanzata dal PD e che più volte qui abbiamo diffusamente spiegato e criticato: dal disegno di legge Nerozzi a quello di Ichino (prima che trasmigrasse in Scelta Civica). Non c’è davvero nulla di nuovo sotto il sole, e quel vecchio che viene riproposto ancora una volta puzza di marcio.
Per il resto, l’assegno universale per chi perde il posto di lavoro è sacrosanto, ma finché non sappiamo quale sia l’importo non potremo dissipare il sospetto che si intenda ridurlo rispetto a oggi. L’obbligo di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro, non accompagnato da criteri precisi (salario, durata, distanza) rischia solo di aumentare ulteriormente il tasso di sfruttamento. Ancora, i centri per l’impiego peggio di oggi non possono funzionare, ma anche la prospettiva di metterli al servizio dei centri di formazione privati e del loro colossale business non è particolarmente accattivante.
Ultima viene la proposta di una legge sulla rappresentatività sindacale – e se siamo sulla falsariga di quella su cui stanno litigando (tardivamente) Camusso e Landini non è una buona notizia – accompagnata dalla prospettiva di una presenza di rappresentanti dei lavoratori nei CDA delle grandi aziende. Aggiungo io: con zero potere decisionale e l’unico scopo di tenere meglio sotto controllo il conflitto creando un ulteriore livello di burocrazia sindacale facilmente comprabile.
Basta: per un progetto che nemmeno esiste, ho scritto già fin troppo. Ma vedrete che ci ho beccato.
Camere di commercio enti semiprivati?!?! Scusi, ma credo abbia preso un abbaglio. Le Camere di commercio sono enti di diritto pubblico (autonomie funzionali, per essere precisi, al pari delle Università) che svolgono funzioni sia di natura amministrativa (tenuta del Registro delle Imprese) che di natura regolatoria (es. controlli metrologici) che di natura promozionale (attività, come ad es. la partecipazione a fiere, normalmente non presenti sul mercato a costi accessibili alle MPMI).
Questo per completezza di informazione giuridica. Francamente non vedo cosa vi sia di “medievale” in queste istituzioni, se non il fatto che, per volere di chi le gestisce, gli organi direttivi siano emanazione diretta delle associazioni di categoria, con in più rappresentanti dei lavoratori, dei consumatori e dei professionisti.
Per favore, non abbattete una delle poche cose che in Italia funziona mediamente bene!
Non ho dato una definizione giuridica, ma nella sostanza, confermi che sono enti di diritto pubblico gestiti da associazioni private: dunque enti semiprivati. In ogni caso, concordo sul fatto che sia davvero l’ultimissimo dei problemi, la proposta non è certo mia.