Ora che tutti quelli che volevano vederlo l’hanno visto, posso dire la mia su The Wolf of Wall Street, l’ultimo film di Martin Scorsese, in cui Leonardo Di Caprio interpreta (magistralmente) il personaggio di Jordan Belfort, spregiudicato broker nella Wall Street degli anni Novanta.
Il film racconta la storia, più o meno vera, del protagonista, descrivendone la parabola: dagli inizi da saltafossi di periferia, all’apice da saltafossi schifosamente ricco e altrettanto vizioso, fino alla caduta, con una relativamente breve parentesi in prigione e la nuova vita, appena accennata, a reinventarsi un (ben pagato) mestiere di imbonitore.
In tutta la vicenda, l’accento è sempre esplicitamente posto sulla descrizione degli eccessi morbosi di Belfort: sesso e droga come se piovesse, grazie ai soldi che letteralmente è come se piovessero. Si può dire che questi eccessi siano il filtro messo davanti agli occhi dello spettatore, in modo che osservi tutto quel che accade solo attraverso questo prisma colorato.
La critica main stream ha accolto in larghissima parte il film, con articoli come questo di Federico Gironi: già l’esordio della sua recensione lascia intendere il motivo dell’apprezzamento: “The Wolf of Wall Street non è – se Dio vuole – un film sulla finanza“. Quello che emerge dalla maggior parte degli articoli di questo tenore è che il grande merito di Scorsese sarebbe di aver fatto un film ambientato nel mondo del capitalismo finanziario senza voler minimamente parlare di quello, ma prendendolo come pretesto, buono come un altro qualsiasi, per raccontare la condizione umana in generale.
Dall’altra parte, isolate voci fuori dal coro, ma comunque autorevoli come ad esempio quella di Mauro Baldrati su Carmilla on line, hanno levato un grido di indignazione, accusando Scorsese di aver fatto un film inverosimile, retorico, tautologico: “The Wolf of Wall Street non ha alcun contesto a parte l’indugiare fine a se stesso sul personaggio e la cosiddetta “perdizione” nel “male”. Mi dicono che ci sia addirittura chi si è lamentato sostenendo che il film sarebbe un’apologia del protagonista e dei suoi eccessi.
Quest’ultima posizione, giustamente contestata da Di Caprio in una serie di interviste, mi pare demenziale: nessuna persona sana di mente può provare invidia o stima nel vedere il modo in cui sono rappresentati i vizi di Jordan Belfort; qualcuno potrà anche considerarlo un “genio”, ma pur sempre un genio patetico, meschino, sostanzialmente infelice: uno nei cui panni non si vorrebbe proprio essere, nonostante tutti i soldi del mondo.
Ma francamente trovo infondate anche le altre due interpretazioni, che per quanto antitetiche partono dallo stesso presupposto: che l’autore abbia voluto parlare unicamente della persona del protagonista, ignorando di fatto, e volutamente, il rovinoso mondo della grande finanza in cui la vicenda si svolge. Questa è la ragione per cui gli uni apprezzano, e gli altri detestano il film. Ma secondo me si tratta di una lettura superficiale, che tralascia un elemento fondamentale: il contesto; non il contesto della storia che viene raccontata, ma il contesto in cui la storia viene raccontata.
Noi siamo nel 2014, dopo che una vera e propria catastrofe ha travolto i principali istituti finanziari del mondo – guarda caso, molti di essi vengono citati da Di Caprio/Belfort quando si offre di svelare all’FBI i più sporchi segreti di Wall Street. E nel 2014, quando tutti quelli che vedranno il film sanno che il capitalismo finanziario ha causato la rovina dell’economia mondiale, Scorsese ci racconta la storia di un singolo broker che nel film viene rappresentato come la mela marcia, marcissima, di un albero altrimenti sano. Mi sembra piuttosto evidente che il vero argomento del film non sia la mela, ma l’albero, che ci hanno fatto credere fosse sano e che invece era marcio tanto quanto il frutto, anche senza bisogno di sesso, droga e stravaganze. Con The Wolf of Wall Street Scorsese ha scelto un modo intelligente, e non didascalico, di mostrarlo.
Adesso provate a rivederlo, e ditemi se non ho ragione.
A me è piaciuto, anche se si potevano tagliare un po’ di droga e un po’ di puttane. Quanto al perché Di caprio non meritasse l’Oscar (anche se la cosa mi addolora immensamente), è spiegato in modo illuminante qui http://www.vanityfair.com/vf-hollywood/leonardo-dicaprio-oscar?mbid=social_facebook
Sono d’accordo, ed è perciò che gli ho dato 4, e non 5 stelline.
Quanto agli Oscar, l’articolo è suggestivo, ma una scorsa ai premiati degli ultimi vent’anni mi fa dubitare che sia questa l’unica spiegazione: sono diversi gli attori cool ad aver ottenuto la statuina per ruoli e interpretazioni scarsamente empatici.
Per Di Caprio, credo che in generale ci sia proprio una scarsa simpatia da parte dei suoi colleghi: magari sarà uno stronzo, chissà. In ogni caso, in effetti, per quest’anno non posso giudicare sui premi perché non ho visto né Dallas Buyers Club né 12 anni schiavo.