Stamattina in Tribunale, a una lavoratrice che aveva chiesto che venisse tutelato il suo diritto a essere assunta a tempo indeterminato, l’azienda ha proposto in via conciliativa di assumerla a tempo determinato per 36 mesi. La lavoratrice avrebbe rinunciato, in cambio dell’assunzione, anche al risarcimento per 8 mesi di disoccupazione “forzata”.
Quando ho osservato, prima che entrassimo dal giudice, che non c’era logica in un’assunzione a termine dal momento che si trattava di un lavoro su appalti, e che alla scadenza dell’appalto il contratto se lo sarebbe comunque accollato il nuovo appaltatore, la controparte ha replicato che “è una conciliazione“, come se questo bastasse a sciogliere la perplessità.
Più educatamente, ho sollevato lo stesso argomento anche davanti al giudice, che si è affrettato a rispondermi che, in tempi come questi, 36 mesi di contratto sono un’ottima offerta, e che si deve stare con i piedi per terra. Ecco la soluzione al mio dubbio: non è semplicemente una conciliazione, è il nuovo sistema di riferimento, il nuovo mondo creato dagli ultimi governi, una riforma dopo l’altra, fino all’ultimo decisivo tassello inserito dal governo Renzi.
È emblematico che l’azienda in questione sia del gruppo Manutencoop: il “braccio armato” del ministro del lavoro Poletti (già presidente di LegaCoop) e quindi del governo.
Preciso che non siamo neppure entrati nel merito della fondatezza della domanda (che a me sembra piuttosto fondata), ma non è questo il punto che mi ha colpito. La questione interessante è che, con l’abolizione della causale nel contratto a termine, è cambiato in modo decisivo il concetto di “stabilità”: un contratto di tre anni non è più un contratto precario, ma è il massimo di stabilità a cui si può ambire, quasi un privilegio. Purtroppo però temo che lo stesso slittamento di significato non sia accettato dalle banche quando si tratta di concedere un mutuo.
A colpirmi non è nemmeno il realizzarsi di una conseguenza che era facilmente prevedibile, ma l’immediatezza con cui si è realizzata: il decreto lavoro risale a nemmeno tre mesi fa, e oggi il tribunale ha certificato, sia pure nell’ambito di una conciliazione, che il contratto a tempo indeterminato è davvero destinato a scomparire, verosimilmente portando con sé nell’oblio il concetto di sicurezza, di possibilità di programmare un futuro, a cui non ci eravamo ancora del tutto disabituati.
È inquietante, ed è colpa in gran parte dell’inadeguatezza delle organizzazioni di sinistra in Italia, che il partito che più di ogni altro è artefice di questa deriva disastrosa, il Partito Democratico, abbia stravinto le elezioni raccogliendo un consenso senza precedenti, e senza confronti in Europa. Non durerà questo consenso più a lungo di quanto gli 80 Euro al mese riusciranno a pareggiare il peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita che cercano di mascherare: molto poco. Ma un buon modo per combatterlo fin da subito, questo partito nemico, è non votarlo, a partire dai ballottaggi di questo fine settimana.
“Ma così vince la destra, Berlusconi, il malaffare!“, si affannano a ripetere in queste settimane gli esponenti locali del PD. Anche se non mi auguro affatto che siano eletti Alessandro Cattaneo a Pavia né Franco Tentorio a Bergamo, tanto per fare un paio di nomi particolarmente spiacevoli, la verità è che, alla fine della fiera, i loro oppositori, Massimo Depaoli o Giorgio Gori, saranno forse meglio nella forma, magari anche nei metodi, ma di certo non nella sostanza, negli obiettivi. Il mondo che ci stanno costruendo intorno è lo stesso, la stessa identica prigione. E, a proposito di prigioni, a chi sostiene che le considerazioni che valgono per la politica nazionale non contano in quella locale, dirò soltanto due parole: Giorgio Orsoni.
È abominevole sentirsi dire da un giudice:
Scusa, ho fatto confusione col tag.