C’era da giurarci che tra tutte le parti della legge delega sulla riforma del lavoro, la prima a trovare attuazione sarebbe stata quella sull’abolizione dell’articolo 18. Così è stato, con lo schema di decreto che il governo ha gentilmente deposto sotto l’albero di Natale del padronato il 24 dicembre.
La bozza, ancora in fase di discussione e dunque in attesa di essere approvata definitivamente, conferma quasi tutti i timori che la legge delega aveva sollevato. Il cuore del provvedimento è la scomparsa della reintegrazione in tutti i casi in cui il licenziamento, dichiarato illegittimo dal giudice, fosse stato ricondotto dal datore di lavoro a presunte ragioni economiche, rivelatesi inesistenti. La perifrasi è necessaria per spiegare che razza di trappola abbia apparecchiato il governo: per potersi sbarazzare definitivamente di un lavoratore per qualsiasi ragione sgradito sarà sufficiente al padrone dichiarare l’esistenza di motivazioni di tipo economico anche pretestuose o palesemente inesistenti, stando solo attento a non rendere troppo evidente, o comunque facilmente dimostrabile, eventuali ragioni discriminatorie. Solo in quest’ultimo caso infatti – ma la prova della discriminazione deve fornirla il lavoratore e si tratta di una dimostrazione pressoché impossibile – è prevista la reintegrazione. In tutte le ipotesi di licenziamento economico, invece, la sanzione è poco più che una mancia: 2 mesi di stipendio per ogni anno trascorso dall’assunzione, con un minimo di 4 mesi e un massimo di 24, nelle ipotesi improbabili in cui un rapporto di lavoro sia durato almeno dodici anni.
Lo stesso vale anche per i licenziamenti collettivi, per i quali la reintegrazione è sempre esclusa, anche in caso di violazione di criteri e procedure di legge: per includere illegittimamente nell’elenco dei licenziati lavoratori con elevata anzianità di servizio o carichi familiari maggiori sarà sufficiente pagare il solito obolo.
Nei soli casi di licenziamento disciplinare giudicati illegittimi per la dimostrata insussistenza del fatto materiale contestato è in effetti prevista la reintegrazione. Ma è un’ipotesi destinata a rimanere puramente teorica: perché mai un datore di lavoro dovrebbe inventarsi di sana pianta un addebito disciplinare, quando molto più facilmente e senza alcun rischio si può inventare una motivazione economica?
Diverso il caso di un licenziamento disciplinare ritenuto illegittimo per violazione della procedura (ad esempio perché non è stato consentito al lavoratore di difendersi dalle accuse!): in questa ipotesi, come in quella in cui non siano stati affatto indicati i motivi del licenziamento, la sanzione è addirittura dimezzata rispetto a quella ordinaria: un mese di stipendio per ogni anno, con un minimo di 2 mesi e un massimo di 12.
Di fatto, sarà proprio questo, un mese per ogni anno di anzianità con un minimo di due, il ridicolo costo effettivo dei licenziamenti arbitrari in Italia, se dovesse entrare in vigore la riforma, anche per via di un ulteriore meccanismo perverso introdotto dal decreto per rendere gli esuberi il più possibile a buon mercato. È prevista infatti la possibilità per il datore di lavoro, entro sessanta giorni, di proporre al licenziato di accettare transattivamente una somma pari a metà del risarcimento ordinario in cambio della rinunzia a impugnare il licenziamento. Il lavoratore potrà rifiutare, ma considerato che la posta in palio non è molto maggiore e di fronte alla prospettiva di perdere un sacco di tempo per ottenere poco di più, c’è da scommettere che la maggior parte sceglierà di accontentarsi delle briciole delle briciole.
Tutto questo vale per le aziende con più di quindici dipendenti. Per quelle più piccole è rimasto invariato il limite massimo del risarcimento in caso di licenziamento illegittimo (6 mensilità), mentre il minimo è stato ritoccato verso il basso (e perché no?), da 2,5 a 2 mesi di stipendio.
Ma al padronato non è sufficiente potersi sbarazzare a costo zero dei dipendenti indesiderati: vuole continuare a guadagnarci su anche dopo che sono stati licenziati. Ecco perché proprio in conclusione il decreto introduce un nuovo voucher che il lavoratore licenziato ritirerà presso l’INPS e consegnerà a una delle agenzie di lavoro private accreditate: nel caso in cui si trovi un nuovo lavoro, ovviamente anche molto peggiore del precedente, l’agenzia potrà incassare il voucher. In sostanza è l’ennesimo modo con cui risorse che avrebbero dovuto essere utilizzare per potenziare un servizio pubblico come quello del collocamento vengono invece direttamente regalate al privato.
Quando sarà approvato il decreto? Non si sa. Ma non c’è tempo da perdere per fermarlo: recuperiamo le scope della Befana e spazziamoli via!