Una decina di giorni fa ho visto al cinema L’amore bugiardo (Gone Girl in originale), ultimo thriller di David Fincher, già autore tra l’altro di Seven, The Social Network e del remake americano di Uomini che odiano le donne.
Chi ha intenzione di vedere questo film non legga il post, perché contiene inevitabili spoiler: non voglio scrivere una recensione infatti, ma riportare alcune riflessioni che al film sono seguite, e per renderle comprensibili devo necessariamente raccontare il principale colpo di scena. Comunque fidatevi: se anche non lo vedete non vi perdete molto.
Il protagonista è un uomo sulla quarantina che una mattina, tornando a casa, scopre e denuncia la scomparsa della moglie. Emergono ben presto tutta una serie di retroscena sinistri sul rapporto di coppia e di dettagli stonati sul luogo del presunto delitto che inducono la polizia e soprattutto l’opinione pubblica a considerarlo il principale sospettato. A metà del film però scopriamo che in realtà è tutta una messa in scena della moglie, che ha orchestrato la propria finta sparizione per incastrare il marito fedifrago e farlo condannare (a morte, già che c’era). La seconda parte della vicenda si svolge su due binari paralleli: da un lato il marito che cerca di discolparsi, specialmente agli occhi dell’opinione pubblica, e di smascherare la donna; dall’altra la moglie che cerca di far sparire le sue tracce: nel tentativo, finisce per rimanere senza un soldo ed è costretta a ricorrere all’aiuto di un ricchissimo stalker con cui non aveva mai interrotto i contatti dopo la fine di una precedente relazione. Forse per evitare di rimanere imprigionata dalle ossessive attenzioni di questo tizio, lo seduce e alla prima occasione lo squarta, dopo aver accuratamente prodotto le tracce di un tentativo di stupro. Ricoperta del sangue del presunto stupratore, ricompare infine dal marito raccontando di essere stata rapita e violentata dallo stalker, prima di riuscire a farlo fuori e fuggire. Tutti le credono tranne il marito, che vivrà d’ora in poi sonni agitati, prigioniero della moglie bugiarda.
All’uscita dal cinema ho raccontato a Martina le mie impressioni sul film: come thriller, non mi è parso un gran che, per via di personaggi poco credibili, e soprattutto di una struttura narrativa fiacca, con il colpo di scena a metà della storia e il resto della vicenda ampiamente prevedibile.
Ci ho messo qualche minuto in più però per mettere a fuoco che cosa davvero mi aveva infastidito: quella della protagonista femminile come una donna psicopatica che si inventa tentativi di violenza ai suoi danni cercando (e in un caso riuscendoci) di incastrare uomini più deboli di lei, mi sembra una rappresentazione neanche tanto velatamente sessista.
Con Martina si è accesa un’accanita discussione (io discuto quasi sempre in modo accanito) sulla legittimità di un’interpretazione “morale”, “politica” o “ideologica” di quello che alla fine è un film di genere che piuttosto evidentemente non aveva tra le sue intenzioni una riflessione sul ruolo della donna nella società. Con l’aiuto di Google, ho poi verificato che la questione era stata effettivamente oggetto di un vivace dibattito sulla stampa, soprattutto nei paesi anglofoni che sono notoriamente più sensibili alla questione. L’autrice del romanzo da cui il film è tratto, Gillian Flynn ha difeso la sua storia sostenendo che, al contrario, sia maschilista la concezione per cui i cattivi non possano mai essere donne ma solo uomini, come se nella realtà non esistessero donne cattive.
Premesso che non ho letto il romanzo, mi pare una difesa un po’ semplicistica. Il punto qui non è che l’antagonista sia una donna (nessuno si sognerebbe di giudicare sessista La carica dei 101), ma che viene operato un rovesciamento rispetto all’esperienza quotidiana che vede le donne, in vicende di questo tipo, infinitamente più spesso vittime che carnefici. Il ribaltamento sarà forse funzionale all’intreccio, ma di certo entra a gamba tesa su un tema delicato, senza l’attenzione che sarebbe stata opportuna, considerato poi quanto è radicato il maschilismo nella nostra società (ogni riferimento ai commenti sulla liberazione di Greta e Vanessa è intenzionale).
Il pericolo di questo genere di operazioni sta proprio nel fatto che ogni narrazione tende necessariamente all’universale, e perciò presuppone che qualsiasi messaggio insito nella particolare vicenda raccontata possa essere applicato alla generalità dei casi.
Volendo forzare l’interpretazione, ma neanche troppo, qui l’idea generale che traspare è che l’ordine naturale delle cose sia che le donne debbano essere sottomesse agli uomini (legittimati invece a molestarle e tradirle), e quando quest’ordine si ribalta è solo perché la donna è una pericolosa psicopatica.
Che poi, non sempre il rovesciamento dei ruoli abituali è una buona idea narrativa: provate a immaginare La carica dei 101 costruita sul presupposto che Crudelia Demon voglia scorticare i dalmata perché Pongo e Peggy l’hanno morsa a tradimento quand’era piccola. Non vi darebbe fastidio?
Ahem, mi vai a citare Crudelia, e qui parte la tirata di critica LGBT.
Nel libro da cui il film è tratto, ma anche nel film, è implicato fortemente che Crudelia Demon odî Roger perché le ha portato via Anita. Romanticamente parlando.
* Crudelia viene descritta come “la tua compagna di stanza all’università” (o qualcosa del genere). Nudge nudge wink wink.
* Anita è una ragazza “bookish” e assolutamente non iper-femminile (quindi potenziale lesbica), ma si “cura” e diventa madre di famiglia (la vera realizzazione di una donna) grazie all’incontro con Roger.
* Crudelia per contro è acida, single, portatrice di morte, una caricatura di donna.
* Devo continuare?
Detto questo: non ho visto il film, vorrei vederlo anche perché il dibattito mi sembra interessante.
Politicamente, trovo che il punto in cui si debba passare da una rappresentazione necessariamente positiva di una categoria oppressa (donne indipendenti, minoranze etniche, disabili, LGBT…) a una possibilità di un personaggio veramente sgradevole sia una questione delicata. Restare solo sul primo passo vuol dire negare una parte di umanità a chi appartiene alle categorie oppresse. Si torna al binomio Madonna/Puttana e, dal punto di vista della progressione della lotta, può portare alla sensazione che diritti sono “se fai il bravo.” Il problema è ancora più complicato nel caso di un’opera che viene esportata globalmente: un gay flamboyant in un Paese con uguali diritti civili è un inside joke (specie con un cappotto della RAF… ;-)), un gay flamboyant in Italia aiuta quelli che ci ricordano come non siamo del tutto normali.
Consiglio fumettistico della settimana: “Bitch Planet” di Kelly Sue DeConnick – è appena iniziato, è un treno ad alta velocità che ti investe nello stomaco.
http://io9.com/bitch-planet-the-feminist-exploitation-webcomic-you-de-1676515865
Confesso di aver citato Crudelia Demon sulla sola base dei miei superficiali ricordi d’infanzia: non sono pronto per una discussione sul tema, ma grazie per gli spunti.
Per il resto, certo: la questione è senz’altro delicata e le sfumature individuate nel dibattito pubblico sul film sono proprio quelle che sottolinei. Quel che mi ha infastidito, da spettatore immerso in un contesto sociale molto arretrato come quello italiano, è stata proprio la mancanza di delicatezza da parte del regista, considerato che oltretutto questa rappresentazione caricaturale dei personaggi non è neppure funzionale a uno sviluppo interessante della trama. Attendo il tuo giudizio dopo che avrai visto il film.