Qualche giorno fa ho vinto nella fase sommaria (ci sono ancora due gradi di giudizio più la Cassazione) una causa di licenziamento: l’azienda, una cooperativa, prima aveva sottoscritto con il sindacato un accordo per il licenziamento collettivo di 15 dipendenti, specificando che l’unico criterio di scelta per individuare i lavoratori da licenziare sarebbe stata la non opposizione al licenziamento, perlomeno fino al 30 settembre 2014. Poi però, in barba all’accordo sottoscritto, aveva licenziato il mio assistito per giustificato motivo oggettivo prima del 30 settembre, violando tra l’altro il divieto di effettuare licenziamenti individuali durante il corso di una procedura di licenziamento collettivo. In pratica, prima si sono impegnati formalmente a utilizzare determinati criteri per individuare i dipendenti da licenziare, poi hanno ugualmente deciso di liberarsi di quel particolare lavoratore, che pure non rientrava in quei criteri: è il principale e più grave motivo di illegittimità dei licenziamenti collettivi. Il Giudice ha dichiarato illegittimo il licenziamento e condannato il datore di lavoro a reintegrare il dipendente, che ha accolto la notizia con un sorriso largo così.
I lavoratori assunti dopo il primo marzo, in casi come questo, non avranno la stessa tutela: in caso di licenziamento avvenuto in violazione dei criteri di scelta nell’ambito di una procedura di riduzione del personale, avranno diritto solo a un risarcimento di due mesi di stipendio per ogni anno di servizio, con un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro. È uno degli effetti della prossima entrata in vigore del decreto legislativo sulle “tutele crescenti”, di cui ho parlato diffusamente qui, approvato definitivamente lo scorso 20 febbraio dal Consiglio dei ministri, senza nessuna delle (modestissime) proposte di modifica avanzate dalle inutilmente consultate commissioni parlamentari.
L’altro decreto approvato e in via di emanazione è quello sugli ammortizzatori sociali, che sostituisce l’ASpI di forneriana memoria con la “Nuova ASpI” (complimenti per l’originalità). La novità sta nel principio alla base di quella che un tempo era chiamata “indennità di disoccupazione”: non verrà più erogata per un periodo fisso (sia pure in misura proporzionale all’ultima retribuzione), ma per una durata proporzionale ai contributi versati, secondo la ricetta della Troika già sperimentata per le pensioni. Più precisamente, per un periodo pari alla metà delle settimane di contributi versati nei quattro anni precedenti (esclusi ovviamente i periodi che hanno già fruttato una precedente prestazione assistenziale), con un tetto di 18 mesi a partire dal 2017. In questo modo, per i lavoratori precari che possono far valere pochi mesi di contributi (da lavoro dipendente) versati l’indennità sarà ridotta a pochi mesi, mentre per quelli con una storia di maggiore stabilità il vantaggio di un periodo di indennità più lungo rispetto alla vecchia disoccupazione sarà complessivamente più che vanificato dall’abolizione di altri istituti come la mobilità e in prospettiva, come già annunciato, la cassa integrazione straordinaria. Oltretutto, il trattamento è condizionato a tutta una serie di obblighi e vincoli, vere e proprie forche caudine per i disoccupati che sono di fatto trattati alla stregua di fannulloni che non hanno voglia di cercarsi un lavoro.
Se non altro è stata eliminata nella versione finale, forse per eccesso di indecenza, la norma che nella bozza del decreto prevedeva che, nel caso il disoccupato trovasse impiego come socio lavoratore di una cooperativa, l’intero trattamento di NASpI venisse versato direttamente alla cooperativa: succulento, ma in effetti troppo vistoso, regalo agli amici del ministro Poletti.
Va detto che sono previsti, per il momento in via sperimentale, altri due forme di assistenza, di misura ridotta: un’indennità di disoccupazione per i reduci da contratti a progetto (ma non per le finte partite IVA rimaste senza lavoro), di durata sempre proporzionale ai contributi versati e comunque non superiore a sei mesi, e importo pari al 75% dell’ultimo compenso, a calare dal quarto mese. E un assegno di disoccupazione riservato a soggetti in “condizione economica di bisogno“: considerato che le risorse stanziate per questa prestazione sono di 200 milioni per il 2015 e altrettanti per il 2016, si tratterà in ogni caso di una ben magra consolazione riservata comunque a pochi. E oltretutto con le consuete condizioni capestro per mantenere il diritto al trattamento.
Questi primi due decreti entreranno in vigore da marzo. Deve ancora percorrere l’iter consultivo (sostanzialmente inutile, come si è visto) nelle commissioni parlamentari lo schema di decreto, annunciato sempre il 20 febbraio, sulla riforma delle tipologie contrattuali e della disciplina delle mansioni.
Il punto più reclamizzato dal governo è l’abolizione dei contratti a progetto: si tratta, di per sé, di un fatto positivo, anche se sono previste eccezioni significative (“restano salve le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo”). Nulla tuttavia lascia intendere che i vecchi contratti a progetto si trasformeranno magicamente in contratti di lavoro subordinato, tantomeno a tempo indeterminato: il decreto infatti lascia inalterata la possibilità di lavorare con partite IVA fittizie o in ritenuta d’acconto e amplia il ricorso ai voucher (“lavoro accessorio”). Di fatto, è verosimile che la maggior parte delle attuali collaborazioni a progetto si trasformerà in forme di lavoro ancora più precarie e sottopagate.
Il padronato avrà oltretutto a disposizione molteplici forme di lavoro subordinato, ma pur sempre precario, dai contratti di apprendistato, a termine o in somministrazione già liberalizzati dal decreto Poletti (il nuovo decreto interviene solo per precisare che lo sforamento della percentuale di assunzioni a tempo determinato non comporta mai la conversione dei contratti abusivi ma solo una sanzione amministrativa), al lavoro intermittente che viene esteso indiscriminatamente fino a 400 giornate di lavoro effettivo nell’arco di tre anni – e senza nessun limite nei settori cruciali del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo: in pratica il modello Expo generalizzato.
Tanto che, per incentivare i datori di lavoro a trasformare i contratti a progetto in tempi indeterminati, è espressamente prevista la possibilità di far sottoscrivere ai lavoratori una conciliazione che prevede la rinunzia a tutti i diritti pregressi e comporta l’estinzione delle precedenti violazioni relative al mancato versamento dei contributi: in pratica l’ennesimo colpo di spugna a spese dei lavoratori.
Infine, ecco la modifica della disciplina delle mansioni, che di fatto sancisce il diritto dei datori di lavoro a demansionare i dipendenti “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali”, negli ulteriori casi previsti dai contratti collettivi, anche aziendali (con conservazione del livello e della retribuzione) e in generale nei casi in cui il demansionamento avvenga “nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita” (in questo caso previo accordo in sede sindacale o giudiziale e con riduzione del livello di inquadramento e della retribuzione). Si tratta di ipotesi talmente ampie e vaghe che di fatto appare sempre possibile per il datore di lavoro invocare una giustificazione per il demansionamento: un ulteriore e potente strumento di ricatto per il padronato nei confronti dei lavoratori.
Dopo la scontata firma del Presidente della Repubblica, i primi due decreti saranno emanati a giorni; il terzo dovrà attendere ancora qualche settimana per l’emanazione. Saranno tutte emanazioni mefitiche per i lavoratori: prepariamo le maschere antigas.