L’altra notte, in sogno, ero a Pavia ad ascoltare Jeremy Corbyn che teneva un comizio in piazza. Quindi lo accompagnavo sul lungo Ticino, probabilmente stavamo andando a cenare da qualche parte con altri compagni, e in italiano mi chiedeva: «Senti, sinceramente, dici che ce la farò a vincere le elezioni?». «Mah», gli rispondevo, «secondo me sì: tu stai tranquillo e tira dritto». Poi mi sono svegliato.
Jeremy Corbyn somiglia un sacco a Obi-Wan Kenobi ed è il nuovo leader del Partito Laburista britannico, è stato eletto il 12 settembre al termine di una lunga e sorprendente campagna elettorale, iniziata dopo la batosta del Labour alle elezioni di maggio. All’inizio di giugno una nota casa di scommesse quotava la sua vittoria in questa sorta di primarie 200/1 e sì, pare che un pugno di coraggiosi abbia arrotondato lo stipendio puntando sul cavallo dato sicuro perdente. Invece alla fine ha raccolto quasi il 60% dei voti.
Unico candidato apertamente di sinistra, in un confronto pubblico dopo l’altro ha demolito i suoi avversari e attirato il sostegno di centinaia di migliaia di persone. Il suo programma comprendeva tra l’altro la nazionalizzazione del settore energetico e delle ferrovie, il rifinanziamento del sistema sanitario e dell’istruzione pubblici a spese di quelli privati, il rafforzamento della contrattazione collettiva a tutela dei lavoratori. In generale Corbyn, uno che durante i governi del New Labour ha votato contro il suo partito in Parlamento quasi un centinaio di volte, si è schierato senza mezzi termini contro i programmi di austerità, tagli ai servizi pubblici e privatizzazioni portati avanti senza grosse differenze dai governi di entrambi i colori, dalla Thatcher al New Labour e ritorno.
Nonostante una campagna denigratoria all’insegna del messaggio “se vince Corbyn il Labour non vincerà mai più le elezioni” (il grande classico del voto utile), Jeremy ha stravinto il confronto, raccogliendo più del triplo dei voti del secondo in lizza, e relegando la candidata più blairiana a un misero 4,5%. Corbyn, che era riuscito in modo rocambolesco a ottenere la possibilità di candidarsi, grazie alle firme “democratiche” di parlamentari laburisti molto più moderati, ha trionfato in tutte le tre categorie di votanti: iscritti al partito, affiliati (principalmente gli iscritti ai sindacati collegati al partito laburista) e supporter, ossia coloro che si sono registrati pagando un obolo di 3 sterline per poter votare. Quella dei supporter era una novità di questa elezione: la burocrazia del partito l’aveva concepita con l’idea che estendere il voto alla gente là fuori avrebbe diluito il peso dei militanti iscritti, tradizionalmente più a sinistra, e spostato a destra il baricentro. Grave errore! I giovani e i lavoratori britannici si sono rivelati molto più radicali di quanto i dirigenti laburisti si aspettassero, tanto che proprio tra i supporter Jeremy ha ottenuto oltre l’80% delle preferenze.
Ed ecco, dopo quelli provenienti da Grecia e Spagna, il terzo indizio di un processo di presa di coscienza e radicalizzazione di massa che sta trasformando lo scenario politico su scala continentale, e che fin da giugno era stato annunciato in Inghilterra dalla partecipazione di massa ai cortei contro l’austerità. È curioso che in ciascuno di questi tre Paesi questo processo abbia assunto forme completamente diverse: in Grecia con la dissoluzione del vecchio partito socialdemocratico e la ribalta di una piccola organizzazione che da anni viaggiava a fari spenti; in Spagna con la nascita di un partito completamente nuovo, Podemos, in competizione con gli screditati partiti tradizionali di sinistra.
Nel Regno Unito invece i lavoratori, con le organizzazioni sindacali in prima fila, hanno trovato il modo per riappropriarsi del loro strumento tradizionale proprio nel momento in cui stavano forse rischiando di perderlo, dopo due decenni di sistematico tradimento (splendidamente descritto da Jonathan Coe in The Closed Circle). Che il tutto sia successo in modo abbastanza casuale, date le circostanze avventurose della candidatura di Corbyn, non è che l’ennesima occasione in cui la necessità si esprime attraverso il caso.
Ma come in Grecia e in Spagna, anche in Gran Bretagna la caratteristica essenziale di questa nuova fase è il coinvolgimento di un numero enorme di persone che fino a poco tempo fa erano disinteressate alla politica: in centomila si sono registrati per poter votare al costo di 3 sterline, ma più ancora si sono iscritti a pieno titolo al partito (e tra questi c’è il mio fumettista preferito, Mark Millar)
Just joined The Labour Party. Took 5 mins. #Corbyn4Leader
— Mark Millar (@mrmarkmillar) 18 Luglio 2015
Il vantaggio, rispetto ai movimenti nei Paesi del Sud dell’Europa, è che una struttura già saldamente organizzata e con una numerosa base di militanti come il partito laburista può resistere alle pressioni con meno difficoltà di organizzazioni fragili come Syriza (come si è visto) o Podemos, oltre al fatto che la potenza economica della Gran Bretagna renderebbe un ipotetico governo laburista molto meno ricattabile della Grecia o della Spagna. Senza contare che i prossimi anni di opposizione (sempre che il #PigGate non acceleri i tempi!) a un governo di destra non potranno che rafforzare il consenso verso un labour sbilanciato su posizioni radicali. Tutto il contrario di quanto afferma la propaganda dei media conservatori e soprattutto dell’opposizione di destra all’interno del partito laburista!
Ecco perché è una buona causa quella di chi si sta organizzando per difendere Corbyn dagli attacchi esterni e interni e consentirgli di tirare dritto sulla strada appena iniziata: aiutiamolo, Obi-Wan, non sarà l’ultima, ma in questo momento è la nostra più grande speranza.