A distanza di nove mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo che ha introdotto il contratto a tutele crescenti, il progetto di ricerca internazionale ISIGrowth ha pubblicato il primo studio accademico sugli effetti del Jobs Act sull’occupazione. Lo studio, realizzato da Marta Fana, Dario Guarascio e Valeria Cirillo e basato essenzialmente sui dati forniti da Eurostat, ISTAT, INPS e Ministero del Lavoro, è disponibile qui, in inglese: consiglio di leggerlo integralmente, ma per chi non ne avesse l’opportunità proverò a sintetizzarlo.
La liberalizzazione del mercato del lavoro come soluzione di lungo periodo alla stagnazione economica
Il Jobs Act non viene dal nulla. Al contrario, è l’atto culminante di un processo di liberalizzazione del mercato del lavoro iniziato fin dagli anni Ottanta non solo in Italia ma in gran parte dei paesi europei. Questa è stata la ricetta imposta dalla classe dominante per risolvere il problema della sostanziale stagnazione economica. Il processo ha subito una forte accelerazione a partire dal 2008 a causa della crisi, che ha reso più drammatici i problemi legati alla scarsa competitività e alla perdita di occupazione specialmente nei paesi dell’Europa meridionale.
Lo studio passa in rassegna la letteratura economica che nel corso degli anni si è schierata a favore o contro l’adeguatezza di questo tipo di misure: la tesi complessiva è che una prima verifica degli effetti del Jobs Act conferma la posizione secondo cui non solo la deregolamentazione del mercato del lavoro non produce gli effetti sperati in termini di occupazione, ma che al contrario produce effetti negativi, in particolare, sulla produttività del lavoro.
La struttura economica italiana e le tappe del processo
Prendendo come riferimento il periodo che va dalla metà degli anni Novanta a oggi, lo studio evidenzia alcune delle criticità croniche dell’economia italiana: l’alto tasso di disoccupazione giovanile (con tassi di occupazione inferiori del 10% all’inizio, e del 20% oggi rispetto alla media dell’UE a 15 stati) e le profonde disuguaglianze sia di genere che tra Nord e Sud
Segue un riassunto delle tappe principali del processo di liberalizzazione del mercato del lavoro in Italia: i primi passi con l’introduzione dell’apprendistato (1983-84) e della concertazione (1993); le prime massicce riforme con il pacchetto Treu e l’introduzione del lavoro interinale (1997) e la legge Biagi con la regolamentazione dei vari contratti precari (2003); e infine la riforma Fornero con il primo attacco all’articolo 18 (2012) e, appunto, il Jobs Act (2014-15). Avrei aggiunto un ulteriore passaggio: il Collegato Lavoro (2010), con cui sono state introdotte tagliole per i precari che volessero far valere i propri diritti e ridotte le sanzioni per le aziende che li assumevano illegittimamente.
Le statistiche illustrano gli effetti di questo progressivo processo di deregolamentazione sotto cinque diversi profili:
- aumento della percentuale dei contratti temporanei sul totale, particolarmente marcato nelle fasce di età inferiori: dal 4% del 1998 al 13% del primo semestre 2015, con la conseguenza che la percentuale di giovani ingaggiati con contratti precari è passata nello stesso periodo dal 20 al 60%; tra le assunzioni precarie, aumento dei contratti di breve durata: i contratti di durata non superiore ai sei mesi sul totale dei contratti precari sono passati tra il 1998 e il 2015 dal 20 al 40% (e di questi, nel 2015, il 30% è costituito da contratti di durata non superiore a una settimana);
- diminuzione della protezione dei lavoratori precari, misurata attraverso l’indice elaborato dall’OCSE che valuta, in particolare, la rigidità delle norme che regolano l’utilizzo di contratti a termine e in somministrazione: l’indice è sceso da 5,85 a 2 tra il 1985 e il 2012 (fino alla riforma Fornero) per quanto riguarda i lavoratori precari, mentre è rimasto stabile a 2,76 nello stesso periodo per quelli a tempo indeterminato;
- tendenziale polarizzazione dei nuovi posti di lavoro tra quelli di livello molto alto e quelli di livello molto basso;
- diminuzione, anche rispetto alla media europea, dei flussi di passaggio dallo stato di disoccupazione a quello di occupazione (dal 18 all’11% nel periodo dal 2010 – primo periodo in cui sono disponibili i dati Eurostat – al secondo trimestre del 2015, contro un livello stabile intorno al 20% in media in Europa), mentre sono stabili, e molto maggiori rispetto alla media europea, i flussi da disoccupazione a inattività (poco sotto il 40%, contro il 16-17% in media in Europa);
- tendenziale diminuzione della produttività del lavoro, sempre al di sotto della media europea a partire almeno dalla metà degli anni Novanta: questa si spiega anche con il bassissimo livello di investimenti in ricerca e sviluppo (attestata dal 2000 al 2014 tra l’1 e l’1,3% del PIL, quasi un punto percentuale al di sotto della media europea).
Complessivamente, il quadro delineato è quello di un’economia che, per tornare competitiva, punta sulla riduzione del costo del lavoro invece che sugli investimenti, specialmente nell’innovazione, assecondata e in questo incentivata dalla legislazione che si è andata formando.
Il Jobs Act
In questo quadro si inserisce, completandolo, il Jobs Act, la cui attuazione si intreccia cronologicamente con i forti incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato previsti dalla legge finanziaria a partire dal gennaio 2015 (esenzione contributiva per 8.060,00 Euro per tre anni).
Con l’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti, da marzo 2015, le assunzioni a tempo indeterminato lo sono però soltanto formalmente, dal momento che le aziende possono licenziare i lavoratori anche senza motivazioni dietro modestissimo risarcimento economico (2 mesi di retribuzione per ogni anno di anzianità).
Ecco comunque il quadro nei mesi successivi all’introduzione degli incentivi alle assunzioni e del contratto a tutele crescenti:
- nel periodo da gennaio a settembre 2015, solo il 20% delle nuove assunzioni è a tempo indeterminato, escludendo le trasformazioni di contratti precari già in essere;
- lungi dal ridursi, dunque, continuano ad aumentare le assunzioni precarie: nei primi nove mesi del 2015 il 63% dei nuovi assunti è a tempo determinato;
- tra i contratti stipulati nel medesimo periodo, oltre un terzo è costituito da part time; il dato è particolarmente accentuato tra i contratti a tempo indeterminato, oltre il 40% dei quali è a tempo parziale: secondo i dati ISTAT, quasi due terzi dei contratti part time sono involontari, cioè subiti piuttosto che scelti dai lavoratori;
- secondo i dati INPS, la retribuzione degli assunti con il contratto a tutele crescenti è mediamente inferiore dell’1,4% rispetto a quella di quanti erano stati assunti nell’anno precedente con contratti a tempo indeterminato tradizionali;
- nei primi nove mesi del 2015 sono stati venduti 81 milioni di voucher (per una descrizione del fenomeno, potete leggere qui), oltre 10 milioni in più che nell’intero 2014: a ulteriore riprova della qualità dei nuovi posti di lavoro nell’epoca del Jobs Act;
- il grosso delle assunzioni si registra nel settore dei servizi (es. la logistica) piuttosto che in quello della manifattura: a crescere sono dunque i settori di basso contenuto professionale, a discapito di quelli più connessi all’innovazione tecnologica.
D’altra parte, se è vero che nel periodo in esame è diminuito il tasso di disoccupazione giovanile (dal 43,3 al 41,1%), lo si deve principalmente all’aumento della popolazione giovanile attiva dovuta al programma europeo Garanzia giovani, che ha spinto quasi mezzo milione di persone sotto i 30 anni a uscire dalla condizione di NEET (che non è compresa nella base statistica per il calcolo del tasso di disoccupazione). Si stima che circa un terzo abbia ottenuto un impiego, gran parte dei quali di tipo temporaneo.
Conclusioni
Secondo gli autori dello studio, le evidenze statistiche dimostrano che il Jobs Act non sta affatto raggiungendo gli scopi prefissati, ossia aumentare l’occupazione e ridurre la precarietà. La riforma sembra invece aver agevolato il progressivo passaggio da una struttura lavorativa fondata sui lavori ad alta professionalità a un’altra basata su lavori poco specializzati e settori a bassa tecnologia: si tratta di una svolta preoccupante soprattutto nel quadro di progressiva perdita di capacità produttiva già in corso dall’inizio della crisi.
In conclusione, si osserva che l’esaminata combinazione delle misure adottate – il Jobs Act e la previsione di indiscriminati incentivi economici alle imprese che assumono con il nuovo contratto a tutele crescenti – si è rivelata inefficace in termini di quantità, qualità e durata dei posti di lavoro generati. Inoltre, tali politiche rischiano addirittura di contribuire al peggioramento il quadro della struttura industriale italiana, già accelerato dopo la crisi iniziata nel 2008.
Complimenti agli autori per il loro grande lavoro. Ora tocca a noi rimboccarci le maniche per riprenderci i diritti.