Chiude oggi, a Bergamo, la mostra su Malevič ospitata dalla GAMEC: peccato se l’avete persa, perché è una delle esposizioni più interessanti che mi sia capitato di visitare ulteriormente.
A colpire l’attenzione non è soltanto l’abbondanza di opere, ma soprattutto l’allestimento. Il percorso si apre con un’intera sala dedicata a un lavoro teatrale del 1913, di cui Malevič curò scenografia e costumi: sullo schermo che occupa la parete di fondo scorrono le immagini di una sua rappresentazione recente, mentre al centro sono esposti i costumi originali. L’opera è La vittoria sul sole e simboleggia il trionfo dell’uomo nuovo sul vecchio ordine, il sole appunto.
Nella Russia tra la rivoluzione del 1905 e quelle del 1917, è rivoluzionaria l’idea di Malevič, che proclama la rottura completa dell’arte dalla rappresentazione in favore dell’astrattismo. L’artista deve esprimere la supremazia della “sensibilità” sulla raffigurazione, servendosi unicamente di colore e forme geometriche: ecco il Quadrato rosso: realismo pittorico di una contadina in due dimensioni, e poco oltre Quadrato nero, croce nera e cerchio nero, opere manifesto del Suprematismo.
Il percorso della mostra prosegue cronologicamente. Subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il governo bolscevico riconosce all’artista incarichi prestigiosi. Malevič abbandona la pittura per dedicarsi all’elaborazione teorica e all’insegnamento, lavorando con i suoi allievi a modelli architettonici di cui sono esposti alla GAMEC alcuni esempi. Le sue opere trovano uno spazio di rilievo in patria e all’estero.
Se è vero, come spiegheranno anni dopo Diego Rivera e André Breton, nel loro Manifesto verso un’arte rivoluzionaria, “L’arte autentica non può non essere rivoluzionaria, non può non aspirare a una completa e radicale ricostruzione della società“, allora l’atteggiamento dell’Unione Sovietica nei confronti dell’arte e degli artisti può essere un’interessante chiave di lettura per misurare la degenerazione del regime con l’avvento dello stalinismo, nella seconda parte degli Anni Venti. L’esposizione mostra questo rapporto nelle ultime sale: man mano che lo stato sovietico si allontana dalla prospettiva rivoluzionaria, di fronte al diktat della burocrazia che impone i canoni della cosiddetta arte proletaria, Malevič affronta prima il carcere, poi la necessità di dissimulare la sua poetica dietro una patina di “realismo socialista”. Ecco la Cavalleria rossa, o le inquietanti Figure femminili e le altre opere retrodatate dall’autore per sfuggire alla censura.
Contro l’arte proletaria, l’idea che fosse possibile per la classe lavoratrice, una volta giunta al potere, sviluppare una nuova teoria e produzione artistica del tutto scollegata dall’arte borghese delle generazioni precedenti, aveva combattuto lo stesso Trotskij, spiegando che “il compito principale del ceto intellettuale nel futuro immediato non è la formazione in astratto di una nuova cultura a prescindere dalla totale assenza di una base per crearla, ma un piano sistematico per impartire alle masse arretrate gli elementi essenziali della cultura che già esiste“. In una prospettiva autenticamente marxista, la dittatura instaurata con la rivoluzione d’Ottobre non poteva che essere temporanea, e completamente finalizzata a raggiungere una nuova epoca in cui non vi sarebbero state classi e in cui dunque l’arte sarebbe stata universale, non certo appannaggio della classe lavoratrice, né ovviamente di alcuna altra classe sociale. Il breve spazio dei decenni necessari a instaurare il socialismo non sarebbe mai potuto essere sufficiente perché la classe lavoratrice, mantenuta in uno stato di semi-analfabetismo dal regime zarista, fosse in grado di sviluppare una sua propria arte, tanto più che sarebbe stato impegnato nel difendere ed espandere la rivoluzione.
Non è un caso che il riconoscimento ufficiale dell’arte proletaria come “dottrina di Stato” vada di pari passo con l’abbandono di una prospettiva rivoluzionaria. Con l’affermarsi della teoria del “socialismo in un solo Paese” la dittatura diventa una prospettiva a lungo termine, non più transitoria, e smette così di essere uno strumento di libertà. Ma senza libertà non può esserci arte. Ancora Breton e Rivera scriveranno: “A coloro che insistono perché concordiamo che l’arte debba essere sottoposta a una disciplina, che noi riteniamo radicalmente incompatibile con la sua natura, rispondiamo con un secco rifiuto e ripetiamo la nostra assoluta intenzione di rimanere fedeli alla formula completa libertà per l’arte”.
Il confronto tra le ultime opere di Malevič negli Anni Trenta e quelle contemporanee di pittori allineati con il dogma imposto dal partito, ed esposte nelle stesse sale della GAMEC, è impietoso: non è solo né principalmente una questione estetica, a essere assente nelle opere del “realismo socialista” è proprio l’anima. “La reazione burocratica ha soffocato la creazione artistica con la sua mano totalitaria“, scrive Trotskij nello stesso periodo del Manifesto..
Malevič muore nel 1935: appena in tempo, si potrebbe dire, per evitare le purghe staliniane che sarebbero iniziate l’anno successivo. Il suo genio è tanto più significativo per il fatto di essere riuscito a esprimerlo, perlomeno negli ultimi dieci anni della sua vita, in un contesto di repressione delle idee e della creatività artistica. Come spiegava una guida ai visitatori della GAMEC, “senza nulla togliere a Picasso, è più facile essere Picasso a Parigi che Malevič a Mosca“.
A me piace concludere con le parole di Trotskij, che esprimono molto bene il rapporto tra arte, rivoluzione e libertà e mi sembrano molto appropriate al soggetto: “la vera creazione intellettuale è incompatibile con le bugie, l’ipocrisia e il conformismo. L’arte può diventare un potente alleato della rivoluzione soltanto nella misura in cui rimane fedele a se stessa“.