Anche i più distratti sanno ormai che domenica si vota per il referendum.
A giudicare dai commenti, solo i meno distratti hanno compreso esattamente la portata del voto, che riguarda la possibilità di prorogare le concessioni attualmente in corso per l’estrazione degli idrocarburi entro le 12 miglia nautiche dalla costa, oltre la scadenza attualmente prevista, fino all’esaurimento dei giacimenti.
In effetti la questione si presta a tecnicismi sia giuridici, per comprendere precisamente di quali disposizioni legislative si chieda l’abrogazione e con quali effetti normativi, sia strettamente tecnici, legati ai processi produttivi per l’estrazione degli idrocarburi.
Chiaramente è soprattutto il fronte del NO a far leva sui tecnicismi, per sollevare una nebbia in cui i cittadini possano perdersi e non raggiungere i seggi, scoraggiati dalla difficoltà di informarsi e prendere una posizione consapevole. Uno degli argomenti utilizzati dagli astensionisti, in questo caso, è che su materie così complesse è il governo a dover prendere le decisioni, e non la massa incompetente.
La vicenda di Tempa Rossa, caduta a fagiolo proprio a poche settimane dal voto, dimostra però che se c’è una caratteristica che i governanti hanno rispetto agli elettori, non è la competenza, ma gli interessi personali, loro o degli amici loro.
È interessante notare che tra i quesiti originari, inizialmente ammessi dalla Cassazione e poi bocciati dalla Corte Costituzionale dopo l’intervento del governo, ci fosse proprio l’abrogazione della norma che consente allo Stato il potere di bypassare le Regioni per l’autorizzazione delle infrastrutture direttamente o indirettamente connesse all’estrazione e allo sfruttamento degli idrocarburi. L’intervento del governo, che ha stoppato questo quesito referendario, è proprio il famoso emendamento alla legge di stabilità festosamente annunciato dall’ex ministro Guidi all’amico affettuoso nonché imprenditore Gemelli.
Gli interventi a gamba tesa del governo dopo l’iniziale approvazione dei quesiti sono una delle ragioni per cui il referendum arriva al voto depotenziato, limitato a un aspetto tutto sommato marginale, che certo non influisce sul complesso della politica energetica nazionale, dal momento che, secondo i dati del Ministero, riguarda una quota di produzione di poco superiore al 3% dei consumi nazionali. Con buona pace degli argomenti del NO sul pericolo di dipendere dall’estero per la fornitura di risorse energetiche.
Ed ecco anche perché le questioni tecniche relative ai processi produttivi sono di fatto marginali: occorre essere geologi o ingegneri per comprendere perfettamente i modi con cui gas e petrolio vengono estratti, e quali siano i pro e i contro strettamente produttivi di consentire o meno lo sfruttamento integrale dei giacimenti. Ma dal momento che parliamo di quote davvero poco significative della produzione, tutto sommato poco importa davvero, tanto più che delle concessioni interessate dal referendum, ossia quelle entro le 12 miglia, appena un terzo cesserebbero immediatamente l’attività in caso di vittoria del SI, mentre le altre andrebbero comunque a scadenza nel 2027. Dunque con tutto il tempo per ovviare alle ricadute produttive, anche in termini di posti di lavoro, ad esempio riconvertendo le risorse alla produzione di energia da fonti rinnovabili.
Conta invece porre la questione sul terreno delle scelte politiche, e per orientarsi in queste scelte non serve una laurea: qui la faccenda è più semplice.
La legge italiana già proibisce, dal 2010, di ottenere nuove concessioni per la ricerca e per l’estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia. La scelta politica strategica dunque, legata al rischio di incidenti, all’intenzione di investire maggiormente sulle rinnovabili, alle proteste ambientaliste, etc., è stata già presa anni fa. Sono state fatte salve, per non pestare troppo i piedi alle compagnie petrolifere, le concessioni già autorizzate, fino alla loro scadenza contrattuale, che come abbiamo visto nella maggioranza dei casi è molto in là nel tempo.
Nel 2012 il governo Monti ha modificato questa norma, introducendo la possibilità di prorogare la scadenza già prevista fino all’esaurimento del giacimento, dunque, di fatto, lasciando alle compagnie petrolifere, e sottraendola allo Stato, la scelta di quanto, quando e come estrarre. Con l’ultima legge di stabilità il governo Renzi ha introdotto un’ulteriore modifica, di fatto spostando al 2015 (invece che al 2010) la data entro cui le concessioni già ottenute potevano essere prorogate.
È una scelta politica, sia pure di impatto relativamente modesto, quella di attribuire a compagnie private la facoltà di regolare secondo la propria convenienza economica la produzione delle risorse energetiche, per di più in deroga a una linea di indirizzo statale già presa nel senso opposto. A tutti gli effetti, si tratta di una forma di privatizzazione di risorse pubbliche, in fondo non diversa da quella dell’acqua su cui si votò nel 2011, con grande partecipazione e schiacciante maggioranza contraria alla privatizzazione.
Le ragioni per cui votare SI in questo referendum sono le stesse di allora: la gestione dei beni pubblici deve essere in mano pubblica e non deve rispondere a criteri di profittabilità, ma soltanto di pubblica utilità. Ogni norma che sottrae controllo al pubblico in favore del privato merita di essere abrogata. Tanto più se lo Stato ottiene in cambio giusto un piatto di lenticchie, che è più o meno il valore delle royalties pagate dalle imprese produttrici in cambio dell’attività estrattiva.
Una buona ragione in più per votare SI è la netta contrarietà del governo al referendum, che ha tentato di sabotare in ogni modo. Ogni colpo a Renzi e ai suoi accoliti è un punto per i suoi nemici, cioè noi. La vicenda Tempa Rossa, da cui ogni giorno che passa esce liquame peggiore, è un segno in più dell’urgenza di cacciare questa banda di briganti. Non sarà questo referendum a fare questo lavoro, ma può contribuire a creare un clima in cui le proteste si moltiplicano di numero e di intensità.
Lo ripeto, per sottolineare il concetto: non sarà questo referendum a produrre alcun vero risultato, e questo è l’unico, tra gli argomenti del fronte del NO, a essere quantomeno fondato. Non è solo per via dell’iter burocratico con annesso sabotaggio renziano, di cui si è detto; è lo strumento in sé che è spuntato e moderato per definizione, perché sposta la mobilitazione dal piano delle lotte a quello elettorale, toglie i movimenti dalle piazze per lasciarli dietro le tastiere, dove sono meno efficaci.
Basta vedere l’efficacia della lotta contro il TAV, che riesce da decenni ormai a bloccare un progetto insensato e dannoso, e che non è non è mai stata delegata a un referendum. Il referendum è solo apparentemente partecipazione: in realtà è partecipazione passiva, mille volte mediata dalle carte bollate, dalle aule della Cassazione e della Corte Costituzionale, e perciò tanto più depotenziata. Perfino quando vince, non basta: come il referendum contro la privatizzazione dell’acqua, il cui esito, nonostante una mobilitazione colossale, è stato tranquillamente riposto in un cassetto il giorno dopo.
Nel caso di questo referendum, poi, la moderazione era già nei quesiti originari, con cui si chiedeva in sostanza di riequilibrare a vantaggio delle Regioni (le istituzioni che hanno promosso la consultazione) l’equilibrio di poteri concessori rispetto allo Stato: come se le Regioni non fossero governate dallo stesso personale politico, con gli stessi interessi, magari in scala ridotta, del potere centrale. Emblematico il caso dell’Abruzzo, dove si era sviluppata una mobilitazione di massa tra la primavera e l’estate del 2015 contro il famigerato progetto Ombrina: la Regione prima ha aderito alla richiesta di referendum, anche per imbrigliare la lotta (che infatti si è sostanzialmente spenta in attesa dell’iter della consultazione), poi, ottenuto questo risultato, si è sfilata schierandosi addirittura contro le altre nove Regioni, a favore del governo, davanti alla Corte di Cassazione.
Dunque domenica votiamo SI, ma da lunedì riprendiamo a ragionare e a lottare per un modello produttivo complessivamente diverso, imperniato sugli interessi della collettività e non su quelli delle compagnie private, ecologicamente sostenibile ma non per questo meno efficiente. Un modello che preveda magari meno petrolio e più fonti rinnovabili, ma in cui comunque anche il discorso strettamente ambientalista divenga parte di un ragionamento più ampio, prendendo atto che uno sviluppo davvero sostenibile non è possibile all’interno del sistema capitalista.