Ho sempre sostenuto che nessuna riforma del lavoro che abbia a cuore la tutela e gli interessi dei lavoratori può prescindere da due elementi cruciali: forme efficaci di controllo che assicurino il rispetto dei diritti, e un sistema sanzionatorio in grado di colpire i responsabili degli abusi là dove serve davvero, nei portafogli individuali. Lo abbiamo scritto anche nel programma “per l’alternativa rivoluzionaria“, che abbiamo discusso con i compagni di Sinistra Classe Rivoluzione nel dicembre 2014 e che potete leggere qui.
Senza questi due elementi, anche le leggi migliori non potranno evitare vicende come quella che mi ha raccontato S.K., una lavoratrice indiana, un paio di mesi fa. Al telefono mi aveva detto che poche settimane prima “il padrone” (diceva proprio così, con apprezzabile proprietà di linguaggio: userò anch’io questo termine in questo post) le aveva “cancellato il contratto”, e voleva capire che cosa fare. L’ho indirizzata al centro per l’impiego per avere informazioni più precise su questa cancellazione, e il giorno dopo, quando ci siamo incontrati e mi ha mostrato i documenti, mi si è accapponata la pelle.
Il padrone era una piccola s.r.l. del settore ortofrutticolo dove S.K. lavorava da diversi anni come operaia (riempiva di frutta e verdura i sacchi destinati alla distribuzione), inizialmente in nero e poi, da circa un anno, assunta a tempo indeterminato. Non che la sua condizione fosse migliorata granché: nonostante contratto collettivo e minimi retributivi che dovrebbero essere inderogabili, diritto a ferie e malattia, straordinari, etc., continuava a essere pagata a giornata. Era riuscita solo a ottenere un “generoso” aumento, da 25 a 28 Euro al giorno, giorno che normalmente era costituito dalle 10 alle 12 ore lavorative, dal lunedì al sabato. In sostanza, S.K. lavorava almeno 60 ore alla settimana per circa 600 Euro al mese.
Per far “quadrare i conti”, nelle buste paga, dalla retribuzione minima prevista dal contratto collettivo erano trattenuti ogni mese centinaia di Euro come “recupero acconto“, ovviamente senza che ci fosse alcun acconto da recuperare. I (pochi) giorni di assenza non erano retribuiti, ma in compenso le ferie venivano arbitrariamente scalate. Della tredicesima nemmeno l’ombra.
La situazione è precipitata quando S.K. ha comunicato al padrone di essere incinta e gli ha mostrato un certificato medico che prescriveva un cambio di mansioni, per evitare rischi nel periodo precedente l’astensione obbligatoria. In questi casi, la “prassi” era quella delle dimissioni in bianco, ma dal 2012 occorre che le dimissioni vengano anche confermate dal lavoratore presso il centro per l’impiego o la direzione territoriale del lavoro. In teoria, dunque, non è così semplice. In teoria, appunto. Perché in pratica il padrone ha inviato al centro per l’impiego la comunicazione che la lavoratrice si era dimessa, e a quanto pare nessuno ha controllato non solo che le dimissioni fossero autentiche e spontanee, ma neppure che fossero effettivamente state rassegnate!
Con un ricorso d’urgenza abbiamo chiesto che le dimissioni fossero dichiarate nulle, che il rapporto di lavoro fosse ripristinato esattamente com’era e che venissero pagate tutte le differenze retributive accumulate nel periodo precedente e tutti gli stipendi maturati nel periodo successivo alle “dimissioni”. Il padrone ha dovuto accettare, il rapporto di lavoro è stato ricostituito e i soldi sono arrivati.
S.K. può godersi la sua maternità, ed è un buon risultato, ma sappiamo già che la vittoria è solo temporanea: quando tornerà a lavorare, i soprusi ricominceranno, ammesso e non concesso che il padrone non cerchi nel frattempo di chiudere la società e riaprire l’attività sotto un altro nome, per liberarsi dei guastafeste. E intanto le sue colleghe continuano a lavorare a 28 Euro al giorno.
Il caso di S.K. è forse estremo ma non è affatto straordinario. La ricerca del profitto a qualsiasi costo è l’elemento portante di tutta la nostra società, e il confine tra ciò che è legale e ciò che non lo è, oltre a spostarsi di anno in anno sempre più in là, è spesso fumoso e incerto. Senza contare l’estrema difficoltà di far valere anche quei pochi diritti rimasti, tra il timore di perdere il lavoro se si alza la voce e il rischio che anche una sentenza favorevole rimanga lettera morta.
Non basta mettere una pezza qua e là, anche se in certi casi aiuta. Per evitare ingiustizie come quella subita da S.K. occorre lottare per una società completamente nuova, fondata sull’uguaglianza e sulla solidarietà. Occorre lottare per un’alternativa rivoluzionaria.