La Gazzetta dello Sport oggi, con l’articolo di Franco Arturi Ma le scommesse sono il demonio?, prende posizione sul tema del rapporto tra calcio e “scommesse”, intervenendo a gamba tesa sulla querelle scatenata, tra gli altri, dal sindaco di Cesena. Alcuni giorni fa Paolo Lucchi aveva pubblicamente dichiarato che la sua città avrebbe rinunciato alla candidatura per ospitare, insieme ad altri capoluoghi dell’Emilia Romagna, i prossimi Europei Under 21, se la Figc non avesse interrotto il rapporto di sponsorizzazione con Intralot, uno dei colossi dell’azzardo liberalizzato in Italia.
L’annuncio ha ricevuto molta visibilità suscitando ampie reazioni favorevoli, tanto da spingere la Federazione verso la rescissione dell’accordo commerciale. Ormai da anni la diffusione dell’azzardo liberalizzato è al centro del dibattito pubblico e la maggior parte delle persone la vedono come un grave problema da risolvere, non certo un valore da promuovere attraverso il veicolo sportivo.
Se la sorte dell’accordo tra Figc e Intralot appare segnata, il problema per le imprese che gestiscono l’azzardo è molto più ampio, e deve essere prevenuto in ogni modo il rischio che casi del genere si ripetano e si generalizzino. L’articolo a firma di Franco Arturi sulla Gazzetta è un esempio del tipo di argomenti che sentiremo sempre più spesso in casi come questo, per difendere la legittimità morale, oltre che economica, dell’industria dell’azzardo. Vale la pena perciò di commentarlo puntualmente, per cercare di identificare e smontare i suoi dispositivi retorici.
Pur concedendo ai detrattori di Intralot il beneficio della buona fede (e meno male!), Arturi spiega quali siano i “grandi errori, di natura storico-culturale prima di tutto“, commessi da chi sostiene che l’impresa dell’azzardo dovrebbe star fuori dal mondo del calcio. “Il principale: confondere scommessa con azzardo […] Proviamo a chiarire: l’azzardo è la roulette, i mille giochi da casinò oppure quelle tremende slot machine che mi auguro vengano presto riproibite nei bar e nelle sale italiane. L’azzardo è una puntata basata esclusivamente sul caso: un ambiente che miete, da sempre, molte vittime. […] La scommessa è proprio un altro mondo perché presuppone studio, competenza, sfida semiagonistica, analisi, approfondimento dei termini in gioco. Soprattutto misura.”
Questo argomento è fallace sotto molti punti di vista.
Sotto il profilo letterale: scommessa e azzardo appartengono allo stesso campo semantico perché sono concetti intrinsecamente legati. Il dizionario Treccani inserisce “azzardo” tra i sinonimi di scommessa, sia pure in senso figurato, e non certo a torto. L’azzardo è il rischio di perdere, e non c’è scommessa senza questo rischio: la scommessa infatti è il pronostico su un evento futuro dall’esito incerto. Di più, l’azzardo (che non necessariamente comporta la perdita di denaro) è un elemento essenziale di qualsiasi gioco, senza il quale non ci sarebbe divertimento: se fossi sicuro che facendo una certa mossa a scacchi vincerò la partita, quale che sia la reazione dell’avversario, non ci sarebbe il gioco. Così ogni gioco smette di essere tale quando non esiste più il rischio di perdere.
Anche sotto il profilo economico i due concetti sono indissolubilmente legati, e la distinzione tra slot machine (tremende) e scommessa (sfida semiagonistica) si scioglie come neve al sole anche solo aprendo la homepage di Intralot (o di qualsiasi altra industria dell’azzardo) dove compaiono in fila, una dietro l’altra a distanza di un click, “scommesse”, “live”, “poker”, “casino”, “slot”, “live casino”, etc.. Come si fa a sostenere in buona fede che l’industria dell’azzardo è rispettabile perché promuove le scommesse e allo stesso tempo è tremenda perché riempie spazi reali e virtuali di macchinette succhiasoldi? Non è la stessa identica industria?
Ma anche scendendo nello specifico delle scommesse, quelle promosse dall’industria dell’azzardo si intende, la definizione di Franco Arturi appare totalmente fuori dalla realtà. Quale studio, competenza o approfondimento dei termini in gioco può esserci nello scommettere, ad esempio, sui risultati congiunti di queste cinque partite di calcio in programma oggi: Muhoroni Youth FC – Mathare United FC del campionato kenyano, Como – Pontedera della Lega Pro italiana, FC Codru Lazova – FC Sheriff Tiraspol 2 della serie B moldava, Rayo Vallecano – CD Santa Teresa e Real Betis Balompie – Valencia, entrambe del campionato spagnolo di calcio femminile? Si tratta del pacchetto quick bet sul sito Intralot al momento in cui scrivo, alle 12.09 del 12 ottobre: puntando 5 Euro sulla combinazione consigliata se ne vincono circa 150 – un affare, no?
Questo senza contare le scommesse sul minuto esatto dei goal, o sul numero di calci d’angolo o su altri dati totalmente casuali. Che differenza c’è tra questa scommessa e le slot machine? Siamo seri: nessuna. E non è un caso che siano proprio queste le scommesse maggiormente reclamizzate dall’industria dell’azzardo, che si compiace nelle sue innumerevoli pubblicità proprio del fatto di consentire di scommettere “su tutto e quando vuoi”. Altro che la “misura” invocata da Franco Arturi! L’azzardo liberalizzato non ha bisogno di misura, ma di espandere il business proprio nella direzione che crea compulsione, perché è questa, non la scommessa “studiata e approfondita”, a generare profitto.
Allora la distinzione da fare non è quella improbabile e insensata tra “scommesse e azzardo”, ma quella più sottile e pericolosa tra scommessa controllata, non finalizzata al profitto, e scommessa liberalizzata, il cui scopo è l’arricchimento non di chi vince la scommessa, ma del privato che la organizza in forma d’impresa.
Ma proseguiamo. Poche righe più avanti, Arturi estrae dal cilindro l’abusato paragone tra gioco e alcool: “Anche il vino e la birra possono produrre forti danni collaterali chiamati etilismo. […] Ma nessuno, nonostante questo, si sogna di mettere in discussione il valore economico (immenso) della coltivazione della vite in Italia, della produzione di vino, che giustamente è considerato anche cultura. La scommessa ha forti analogie con il vino e accompagna da sempre, cioè da millenni, lo sport. […] Il problema è proprio questo: l’uso e non l’abuso.”
A una prima impressione l’argomento sembra convincente. A differenza dei proibizionisti (che ci sono anche per l’alcool, del resto) io non nego affatto il valore culturale della scommessa e dell’azzardo in generale. E sì, in un certo senso la questione si pone in modo simile al consumo del vino. Ma anche in questo caso, sotto il tappeto della superficie si nasconde la polvere delle distinzioni taciute.
Il valore economico della coltivazione della vite si fonda sul fatto che tramite il lavoro, le competenze, etc., si produca un bene tangibile, il vino. L’industria dell’azzardo, invece, non produce nulla. Specula, da vero parassita, su un lavoro e un bene che esisterebbe tranquillamente (sia pure, magari, con meno soldi: ma questo è un altro tema) anche senza azzardo: lo sport professionistico in questo caso. Produce profitto per chi controlla l’industria senza dare nulla in cambio. Perfino per le discutibili regole del capitalismo ci troviamo su un terreno eccezionale, non dissimile da quello della speculazione edilizia o finanziaria, ma che a differenza di queste viene “spacciato” per attività ricreativa.
Qui sta l’altro equivoco: l’azzardo liberalizzato tende a eliminare in realtà ogni elemento ricreativo dal “gioco”, dalla scommessa come dalla slot machine, rendendo l’elemento aleatorio l’unico rilevante, ad esempio rendendo sempre più distante lo scommettitore dall’evento su cui scommette, e dunque azzerando o quasi il fattore di “consapevole previsione” che costituisce il sale del divertimento connesso alla scommessa. Se scommetto, per di più congiuntamente, sul calcio kenyota, sulla serie B moldava, e sul calcio femminile spagnolo, è chiaro che non ho la minima possibilità di fare una previsione, e il “gioco” sta tutto nell’aspettare un risultato sostanzialmente casuale. Esattamente come quando premo il bottone sulla slot machine. Il divertimento qui non c’è, come hanno dimostrato numerosi studi. Ma proprio in questo modo si favorisce l’insorgere della dipendenza, rendendo la scommessa un procedimento puramente meccanico che può essere ripetuto senza bisogno di pensare.
Il problema è l’uso, non l’abuso, scrive Arturi, ed è impossibile non essere d’accordo su un’affermazione tanto generica da essere completamente priva di significato. Per riempirla è necessario precisare che la differenza tra uso e abuso è quella tra la scommessa che faccio con il mio amico allo stadio sul risultato della partita che stiamo vedendo, o quella che faccio dal tabacchino quando compilo la schedina del Totocalcio sulle partite che seguirò alla radio la domenica, e la scommessa che punto con un click su eventi di cui non so assolutamente nulla, solo aspettando di sapere se ho perso o vinto. La differenza è tra uso e… Intralot.
Mettere sotto il tappeto questa precisazione significa fare un discorso moralista (nonostante Franco Arturi dichiari di detestare il termine moralismo) e mascherare la realtà, a uso e consumo dell’industria dell’azzardo liberalizzata. Industria a cui non manca di partecipare con il suo marchio anche la Gazzetta, attraverso il portale GazzaBet, che sicuramente non coinvolge le strutture giornalistiche (che anzi l’avevano apertamente avversato), ma evidentemente non è del tutto privo di influenza.
L’articolo di Franco Arturi si chiude con un invito ad affrontare il problema “con animi distesi, o addirittura con un sorriso di curiosità“. Ben venga. Ma l’unico modo per salvare il valore culturale delle scommesse sportive genuine è eliminare dal campo le imprese che fanno dell’azzardo liberalizzato la loro fonte di profitto, e far tornare le scommesse un gioco, per davvero.
P.S. Muhoroni Youth FC – Mathare United FC è finita 0-0.
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