C’era una volta un operaio che aveva un contratto di lavoro in somministrazione e lavorava in una grande fabbrica: si chiamava Max. Il padrone l’aveva ingaggiato, insieme ad altri operai, poco dopo aver licenziato un bel po’ dei lavoratori assunti a tempo indeterminato che lavoravano prima nella fabbrica. Era chiaramente un’ingiustizia, e infatti la legge lo vietava, in linea generale, a meno che il sindacato non fosse d’accordo. In quel caso il sindacato era d’accordo con il padrone della fabbrica, per ragioni che non conosciamo ma che sicuramente saranno state validissime.
Max tuttavia fece lo stesso causa al padrone della fabbrica per ottenere di essere assunto stabilmente, e la vinse. Il padrone fu condannato ad assumerlo a tempo indeterminato, con tanto di Articolo Diciotto. Infatti, per pochi giorni, non era ancora entrato in vigore il Jobs Act: era questa una delle ragioni che aveva spinto Max a fare la causa, e che lo spingeva a rifiutare tutte le proposte del padrone che gli offriva dei soldi purché se ne andasse via. Max infatti sapeva che qualsiasi altro lavoro avesse trovato, sarebbe stato sempre sostanzialmente precario: quella era la sua ultima chance di avere un lavoro stabile.
Il padrone effettivamente ricostituì il rapporto di lavoro e pagò a Max il risarcimento del danno, come era stato ordinato. Dopo la sentenza, gli pagava anche regolarmente lo stipendio. Tuttavia non lo faceva lavorare, sostenendo che non ci fosse posto, in fabbrica, per lui.
Trascorsero in questo modo i mesi, finché un giorno venne convocata un’assemblea sindacale all’interno della fabbrica. Max riteneva di avere diritto a partecipare, dal momento che, anche se non lavorava per scelta del padrone, era pur sempre un operaio di quella fabbrica. Il padrone tuttavia era di diverso avviso, e così non lo fece entrare.
Max allora fece nuovamente causa al padrone, ritenendo che il divieto di partecipare all’assemblea sindacale costituisse una discriminazione. Il padrone si difese sostenendo che Max non avesse nessun interesse a partecipare a quell’assemblea sindacale, dal momento che all’ordine del giorno c’erano alcune decisioni sui turni di lavoro, e che dunque fossero coinvolti solo gli operai che effettivamente lavoravano, e non anche Max. L’avvocato difensore del padrone inoltre, all’udienza di discussione, protestò vibratamente che Max volesse partecipare all’assemblea sindacale solo per sobillare gli altri operai precari, in modo che anche loro facessero causa per essere assunti stabilmente, e che questa situazione fosse inaccettabile: insomma, Max in fabbrica non ci doveva proprio mettere piede, perché era un cattivo esempio (fu allora che Max, il suo avvocato, e probabilmente anche il giudice, compresero la vera ragione per cui il padrone preferiva pagare Max per non farlo lavorare, piuttosto che farlo tornare in fabbrica).
Il giudice, con la sentenza del Tribunale di Milano n. 5972/2017, passata in giudicato, decise che il ricorso di Max era fondato e doveva essere accolto. Scrisse in particolare che “I lavoratori sono tutelati contro i comportamenti del datore di lavoro diretti ad impedire o limitare l’esercizio della loro libertà sindacale, che in questo caso si estrinseca nella mera partecipazione ad una assemblea. Non rientra tra i diritti della parte datoriale decidere a quale assemblea il lavoratore possa o non possa partecipare.” Per queste ragioni, accertò la natura discriminatoria del comportamento posto in atto dal padrone della fabbrica, ordinandogli di consentire a Max di partecipare a tutte le successive assemblee sindacali, e condannandolo a pagargli anche il risarcimento del danno, oltre alle spese del suo avvocato.
Max sa che il padrone cercherà ancora e ancora di cacciarlo, ma intanto si gode questo Primo Maggio. E se lo gode pure il suo avvocato.