In questa (positiva) fase di transizione lavorativa, sono condannato a rimpiangere gli argomenti di cui non ho tempo di scrivere: le elezioni presidenziali in Francia, il “jobs act degli autonomi”, la Questione meridionale (in occasione dell’uscita di FalceMartello n. 5). Più ancora di questi temi, però, nell’ultimo mese trascorso lontano da questa tastiera mi hanno colpito due cose: il mezzobusto di Irina Shayk che per settimane ha tappezzato ogni spazio pubblicitario di Milano, e la squalifica di Joey Barton colpevole di aver infranto le regole della Football Association britannica sulle scommesse.
La pubblicità della “nuova bralette” di Intimissimi è stata un vero fenomeno socio-culturale: basta cercare su Google “Irina Shayk bralette” per trovare dozzine di articoli, anche su pubblicazioni di un certo rilievo come Wired o Vice. Per quanto mi riguarda, posso dire che dopo un paio di settimane non ho più potuto resistere all’impulso di recarmi in un negozio Intimissimi e acquistare un reggiseno (anzi, una bralette) da regalare a Martina. Non ho alcuna competenza in tema di pubblicità – così come in tema di intimo femminile – ma mi pare evidente che la strategia comunicativa sia stata sostanzialmente subliminare, rivolta direttamente al sistema nervoso dei consumatori piuttosto che al loro cervello: mostrare il prodotto un numero sostanzialmente infinito di volte, praticamente senza commento, non per convincere ma per farlo direttamente assimilare dal pubblico. Ammetto di essere un soggetto particolarmente predisposto a questo tipo di pubblicità, ma suppongo di non essere stato l’unico con cui ha funzionato.
La tecnica pubblicitaria delle imprese dell’azzardo è sostanzialmente identica. Provate a guardare in televisione una qualsiasi partita di calcio su un’emittente privata: prima che cominci, dallo studio parte un collegamento con l’inviato direttamente dal “centro scommesse” che annuncia le ultime quote; in ciascuno dei vari stacchi pubblicitari appena prima del fischio d’inizio ruotano non meno di due spot dei diversi gestori di scommesse (senza contare i vari “casinò on line” e slot machine, che pure non mancano); i nomi delle imprese dell’azzardo compaiono direttamente sulle maglie di alcune squadre (la maggior parte di quelle della Premier League inglese, in particolare) e sistematicamente sui cartelloni pubblicitari: quasi tutte le squadre di Serie A, infatti, oltre alla Nazionale, sono direttamente sponsorizzate dai diversi bookmaker, tanto da avere i cosiddetti official betting partners; sullo schermo televisivo compaiono di tanto in tanto “pop-up” che invitano a scommettere; all’intervallo, un nuovo collegamento con il “centro scommesse” fornisce le quote in tempo reale su eventi pressoché casuali come il minuto della prossima marcatura o il numero di calci d’angolo che saranno battuti, oltre ai più consueti risultato finale e numero di gol. E così via.
Chiunque segua il calcio e lo sport in generale, in qualunque maniera, è esposto a un vero e proprio bombardamento pubblicitario al quale è letteralmente impossibile sottrarsi. E le bombe sono tutt’altro che intelligenti: non solo per la qualità spesso imbarazzante degli spot, ma soprattutto perché colpisce indiscriminatamente tutti i “consumatori”, senza distinzione di età e di predisposizione alla dipendenza dall’azzardo. È proprio come una bomba che colpisca un centro abitato, senza curarsi che a essere colpiti siano i bambini nelle scuole e i malati negli ospedali.
Questo è esattamente ciò che ha denunciato l’ormai ex calciatore inglese Joey Barton, commentando la squalifica che gli è stata inflitta dalla Football Association. Barton ha violato la norma dell’associazione che vieta ai calciatori professionisti di scommettere su eventi calcistici: le sue puntate negli ultimi dieci anni sono oltre un migliaio, ma dieci volte tante sono le scommesse su eventi sportivi extra-calcistici. È pacifico, invece, che non abbia mai scommesso laddove potesse direttamente o indirettamente influenzare un risultato. Barton non contesta la legittimità di una sanzione, ma la sua misura, lamentando in buona sostanza una doppia morale da parte della Federazione: con una mano punisce chi scommette, ma con l’altra firma ricchi contratti con le società dell’azzardo liberalizzato per garantirsi una lauta parte dei proventi:
… there is a huge clash between their rules and the culture that surrounds the modern game, where anyone who watches follows football on TV or in the stadia is bombarded by marketing, advertising and sponsorship by betting companies, and where much of the coverage now, on Sky for example, is intertwined with the broadcasters’ own gambling interests.
That all means this is not an easy environment in which to try to stop gambling, or even to encourage people within the sport that betting is wrong. It is like asking a recovering alcoholic to spend all his time in a pub or a brewery. If the FA is serious about tackling gambling I would urge it to reconsider its own dependence on the gambling industry. I say that knowing that every time I pull on my team’s shirt, I am advertising a betting company.
Non mi interessa qui difendere Joey Barton (ma mi piacerebbe certamente essere uno degli avvocati che pagherà lautamente per proporre appello contro la squalifica!), ma il punto che solleva è condivisibile sotto tutti gli aspetti. Innanzitutto, smaschera l’ipocrisia delle posizioni “istituzionali” sul gioco d’azzardo, tutte intrise di falso moralismo: inutile scandalizzarsi per il commercio delle partite, o predicare il “gioca responsabilmente”, quando nella pagina di fianco, o tra un collegamento e l’altro, si ospita la pubblicità con le quote del prossimo evento. La pretesa di distinguere “l’azzardo buono” da quello cattivo, in un sistema comunque finalizzato al massimo profitto possibile, è ingenua nei casi migliori, in mala fede nella maggior parte.
Il divieto di pubblicizzare l’azzardo liberalizzato, perciò, è la prima sacrosanta rivendicazione per chiunque voglia contrastare in modo coerente il proliferare delle scommesse e le sue conseguenze sociali. Ma nel discorso di Barton è accennato anche un tema ulteriore: in un sistema come quello del calcio professionistico che ha il profitto come stella polare, in cui il fatturato è il valore più importante, neppure una rivendicazione transitoria e parziale come il divieto di pubblicizzare le scommesse può essere accolta: le società sportive con fine di lucro sono “dipendenti” dall’azzardo più di un giocatore compulsivo.
Solo quando lo sport tornerà a essere un bene pubblico, gestito nell’interesse comune e non di pochi miliardari, si potrà affrontare in modo efficace anche il problema della dipendenza dall’azzardo. Poi, magari, affronteremo anche il problema della dipendenza dalle bralette.