“Il Labour è più lontano dalla possibilità di governare di quanto lo sia mai stato negli ultimi cinquant’anni.”
Ed Milliband, 25 febbraio 2017
La profezia di Ed Milliband è un buon inizio per un commento sulle elezioni britanniche della scorsa settimana: fornisce lo spunto per qualche dato interessante.
Il Labour ha guadagnato, rispetto alle elezioni del 2015 – quando era guidato proprio da Ed Milliband – oltre tre milioni e mezzo di voti: era dai tempi della prima candidatura di Tony Blair, nel 1997, che non raccoglieva tanti consensi. Nelle elezioni successive, del 2001 e del 2005, Blair perse complessivamente circa quattro dei tredici milioni di voti che aveva ottenuto al primo giro. La parabola di Jeremy Corbyn, invece, appare in ascesa secondo molti indicatori oggettivi: l’andamento dei sondaggi, che appena due mesi fa vedevano i laburisti 20 punti indietro rispetto ai Tory e già oggi segnalano il sorpasso; il consenso tra i giovani: ben oltre il il 60% sotto i trent’anni; l’affluenza di centinaia di migliaia di persone, soprattutto giovani, nel Partito laburista, che nell’ultimo anno e mezzo ha praticamente raddoppiato la sua militanza.
Questa esplosione di consensi si è tradotta nella conquista di 32 seggi. Solo in cinque collegi il Labour ha perso la maggioranza: curiosamente, in uno di questi era candidato l’ottuagenario David Winnick, titolare di uno scranno alla Camera dei Comuni ininterrottamente dal 1979 al 2017 e autore di quest’altra azzeccata previsione, circa tre mesi e mezzo fa:
“Mr. Corbyn è un ostacolo alla vittoria e dovrebbe prendere in considerazione l’ipotesi di dimettersi, dal momento che è semplicemente inaccettabile per gli elettori laburisti tradizionali.”
A dispetto di una crescita di oltre due milioni di voti rispetto al 2015, i Tory non solo non hanno rafforzato l’esile maggioranza che avevano in parlamento, ma l’hanno addirittura persa: tra i dodici seggi complessivamente lasciati per strada, spiccano quelli di diversi ministri. Theresa May ha finito per credere alle stesse favole che, insieme a gran parte dei parlamentari laburisti, andava raccontando da un anno e mezzo per screditare ed esorcizzare l’idea di un Labour radicale e vincente.
The proof of the pudding is in the eating: alla prova del budino, chi sosteneva che il programma radicale di Jeremy Corbyn avrebbe allontanato gli elettori è stato clamorosamente smentito. E’ impietoso il confronto con il Partito socialista francese, che tre giorni dopo le elezioni britanniche, nel primo turno delle elezioni legislative d’Oltralpe, è stato spazzato via: dopo cinque anni di austerità targata Hollande (di cui la Loi Travail costituisce l’emblema) ha perso sei milioni di voti, e probabilmente sarà quasi cancellato dal parlamento.
Tra le altre tesi che il voto britannico ha smontato va sottolineata quella sulla presunta deriva fascista, preconizzata dal successo dell’Ukip alle elezioni politiche del 2015 (e prima ancora in quelle europee del 2014) e, secondo le fosche previsioni dei media vicini alla destra laburista, anche dal risultato del referendum sulla Brexit. L’Ukip ha perso oltre tre milioni di voti, una parte significativa dei quali è finita al Labour.
Si può stupire solo chi interpretava il voto anti-UE unicamente in chiave razzista e di destra. Il confronto tra le mappe delle due tornate elettorali (ad esempio qui e qui) fornisce l’ulteriore conferma che quell’interpretazione (ancora una volta funzionale a screditare Corbyn) era largamente sbagliata. Se a Londra, con la notevole e non casuale eccezione delle periferie, il successo del Labour generalmente coincide con la zona di maggior consenso del remain, nelle zone industriali o ex industriali del Nord dell’Inghilterra, invece, si colorano di rosso i collegi che avevano votato con più convinzione per il leave.
Questi dati impongono di rileggere almeno in parte il voto contro la permanenza nell’UE come un voto contro le politiche di austerità, dunque del tutto coerente con l’entusiasmo per il Labour Manifesto. I punti salienti del programma elettorale di Corbyn sono stati la nazionalizzazione delle ferrovie e delle poste, il massiccio finanziamento per la scuola e la sanità pubblica, e in generale la difesa di tutti i servizi pubblici minacciati dalle misure di austerità promosse dai Tory, ma largamente condivise anche dai governi laburisti dell’era Blair.
Ecco il collegamento fra la vittoria del leave e il successo di Corbyn, ed ecco anche dove risiedono i pericoli per il Labour. Chi sostiene che le parole d’ordine del Labour siano irrealizzabili infatti non ha tutti i torti: sono irrealizzabili all’interno dei parametri del sistema capitalista e all’interno dell’UE. Le politiche di redistribuzione del reddito e di promozione dei servizi pubblici a scapito dei profitti privati che caratterizzano il programma del Partito laburista, per quanto non siano certo rivoluzionarie, sono del tutto incompatibili con il sistema economico di mercato che, nell’epoca della crisi economica, non può che pretendere tagli alla spesa sociale, ai salari, alle condizioni di vita delle fasce più deboli della popolazione. L’esempio della Grecia di Alexis Tsipras è ancora lì a ricordarcelo. Ecco per quale ragione scrivevo, dopo il referendum dell’anno scorso, che “preparare il terreno per una Brexit da sinistra sarebbe stato anche il compito del Labour Party guidato da Jeremy Corbyn“. Il programma del Labour è irrealizzabile senza una rottura decisa con il sistema capitalista: perché possa mantenere il consenso che ha guadagnato, è necessario che Corbyn faccia chiarezza su questo punto, possibilmente liberandosi del fardello dell’ala blairiana, che non gode di alcun consenso reale tra i lavoratori e i giovani ma ancora costituisce la maggioranza del gruppo parlamentare. A queste condizioni, la mobilitazione senza precedenti di centinaia di migliaia di persone, e il sostegno di milioni di altre nei confronti di questo programma di rottura è la carta migliore che si possa giocare nel prossimo futuro per innescare una trasformazione radicale della società in tutta l’Europa.
Giocala bene, Jeremy.
P.S. Scusate, ho già scritto molto più di quanto avrei voluto, ma non posso non citare il personaggio migliore di queste elezioni britanniche: Lord Buckethead. Con tutti i suoi difetti, la Gran Bretagna è un paese meraviglioso se consente che un tizio col mantello e un imponente elmo nero che gli nasconde il volto sia candidato alle elezioni e stia di fianco al Primo ministro uscente al momento della proclamazione dei risultati del suo collegio. Qui c’è il suo programma elettorale: si candidasse in Italia, forse lo voterei.