Come ci ricorda oggi anche Google, l’estate ormai è talmente alle spalle che se mi volto nemmeno la vedo più. Prima di dimenticarmene del tutto, però, vorrei lasciare una traccia dei compagni di carta (e di pixel) che sono stati con me sotto il solleone: riapro così dopo una lunga pausa questo spazio virtuale, con una rassegna delle mie letture estive e qualche consiglio su che cosa leggere e che cosa evitare.
Lev Trotskij, Storia della rivoluzione russa, ed. Sugar, 1964
A marzo di quest’anno ho iniziato a rileggere lo splendido resoconto di Trotskij, con l’idea di rivivere più o meno mese per mese le vicende della rivoluzione russa, dal Febbraio all’Ottobre. La Storia della rivoluzione russa è un testo straordinario per importanza politica, valore storiografico e qualità letteraria fanno a gara: non è affatto necessario essere trotskisti per appassionarsi nella lettura. Del resto – scrive l’autore – “l’esposizione si basa essenzialmente sulla narrazione. Le conclusioni, il lettore deve ricavarle dai fatti stessi“.
Agosto è il mese cruciale per le sorti della rivoluzione. All’inizio del mese si tiene a Mosca il consiglio di Stato, una passerella organizzata da Kerenskij e dagli elementi più moderati che sperano di essersi finalmente sbarazzati dei bolscevichi dopo le persecuzioni di luglio. Hanno fatto i conti senza l’oste. Il tentativo di Kornilov di instaurare la dittatura, alla fine del mese, viene sventato praticamente senza colpo ferire grazie alla guardia rossa. Il sabotaggio militante dei ferrovieri conferisce alla fallita insurrezione un aspetto surreale, che Trotskij non manca di descrivere con l’ironia che caratterizza tutta l’opera, perché “è alla base stessa dei rapporti della vita. Esprimerla apertamente è dovere dello storico, come dell’artista“:
Misteriosamente, i contingenti erano avviati verso destinazioni sbagliate. I reggimenti si imbattevano in divisioni che non erano le loro, i reparti di artiglieria erano spediti sui binari morti, gli stati maggiori perdevano i contatti con i loro contingenti. […] Così gli elementi dell’esercito di Kornilov vennero disseminati nelle stazioni, ai bivi e nei binari morti di otto linee. Seguendo sulla carta le sorti dei reparti di Kornilov, si ha l’impressione che i cospiratori giocassero a mosca cieca sulla rete ferroviaria.
Michel Bussi, Ninfee nere, ed. e/o, 2016
Non sono un grande amante dei gialli. In effetti posseggo questo libro solo perché, tra quelli da acquistare come biglietto d’ingresso a una fiera di piccoli editori, era tra i pochi ad avermi vagamente colpito. Ho scelto di portarmelo in vacanza a Nizza perché era ambientato in Francia, ma in realtà la Normandia del romanzo non ha nulla a che vedere con il clima della Costa Azzurra. In ogni caso, Ninfee nere è stato la lettura più piacevole di tutta l’estate. L’idea alla base della trama (che ovviamente non posso svelare) è intelligente e sostenuta in modo brillante da un meccanismo narrativo ingegnoso, che tiene (con qualche piccola sbavatura) fino alla fine. L’ambientazione è splendida: il delizioso minuscolo villaggio di Giverny si trasforma da meta dei turisti in cerca delle vestigia di Monet in una prigione sempre meno dorata, claustrofobica e inquietante, che viene comunque voglia di visitare. I personaggi sono vivi, la storia è coinvolgente: ci sono tutte le caratteristiche che deve avere un buon romanzo. Anche un bell’incipit:
Tre donne vivevano in un paesino. La prima era cattiva, la seconda bugiarda e la terza egoista. Il paese aveva un grazioso nome da giardino: Giverny.
Quique Peinado, Calciatori di sinistra, ed. Hellnation libri, 2017
Io credo che la Storia si possa raccontare da qualunque punto di vista, attraverso qualsiasi lente. Lo sport, e il calcio in particolare, è una lente particolarmente suggestiva perché coinvolge passioni popolari e interessi economici che riproducono, sia pure in modo deformato, il conflitto delle classi che muove l’intera società.
Ecco perché nutrivo grandi aspettative su questo libro comprato alla Festa Rossa di Parma un venerdì sera di metà luglio. In copertina la fotografia di Socrates con la maglia del Corinthians e il pugno chiuso levato in cielo; sulla quarta una sua citazione: “Non c’è niente di più marxista del calcio“. Non ci credo, ma è una bella frase. Promesse di una lettura interessante.
Purtroppo non mantenute. Troppi una ventina di aneddoti in duecento pagine: molte biografie non sono altro che schede biografiche. Discutibili diverse scelte, cominciando da quella che apre il volume: Agustín Gómez Pagola, stalinista così ortodosso da difendere l’invasione sovietica della Cecoslovacchia contro la linea del Partito comunista spagnolo. Senza contare personaggi come Javi Poves, ipercomplottista, negazionista dell’Olocausto (!) che un suo ex allenatore definisce “un bravo ragazzo, ma con qualche rotella fuori posto“. In questo marasma, alle storie davvero di sinistra come quelle di Socrates e di Paolo Sollier è dedicato ben poco spazio, per un racconto che finisce per essere superficiale e non cogliere la vera diversità delle loro vicende.
L’unico capitolo davvero interessante è quello intitolato significativamente Quando il calcio tacque, che racconta i mondiali del 1978 in Argentina, la vetrina allestita dal regime di Videla per distrarre i propri cittadini e sdoganare la dittatura all’estero. Una lunga serie di testimonianze di calciatori e di protagonisti del movimento contro la dittatura – le Madres de Plaza de Mayo dipinge un quadro vivace e toccante:
Tra i capi c’era Hebe de Bonafini, che oggi continua a essere il referente principali delle Madri. E insomma: mentre lei piangeva la sparizione di suo figlio in cucina, suo marito festeggiava i gol dell’Argentina nel salone. Lei gli diceva che quel Mondiale era fatto per nascondere tutto, ma lui lo negava.
Non sorprende che, in un contesto del genere, nessun calciatore abbia fatto nulla, per ignoranza, superficialità, disinteresse, comodità. Ma il fatto che il capitolo più interessante di Calciatori di sinistra sia quello in cui non ci sono calciatori di sinistra dice molto sull’efficacia del libro.
Zlatan Ibrahimovic con David Lagercrantz, Io, Ibra, ed. Rizzoli, 2011
Quando il Kindle store mi ha proposto questo libro a 99 centesimi mi sono detto perché no? e l’ho comprato con l’idea di leggerlo in spiaggia. Ibra è un grande calciatore e un personaggio memorabile, sembra uno dei pirati di Valerio Evangelisti. La sua biografia – che arriva al 2011, prima degli anni a Parigi – non delude le attese: strappa più di un sorriso e si legge volentieri, tra un bagnetto e l’altro. Vi lascio con la sua frase-culto:
Si può togliere il ragazzo dal ghetto, ma non si può togliere il ghetto dal ragazzo.
Massimo Roscia, La strage dei congiuntivi, ed. Exorma, 2014
Alla fiera dei piccoli editori mi aveva incuriosito la descrizione di questo “romanzo originalissimo, un gioco, un intreccio stretto di livelli narrativi diversi. Un testo divertentissimo e paradossale, denso di rimandi e suggestioni di borgesiana memoria. Una scrittura ineccepibile, un lessico affascinante, una vera delizia della Lingua!” Non speravo di aver trovato un nostrano Georges Perec, ma una lettura interessante, quello sì.
Che poi, chi mi conosce lo può confermare, io sono un tipo puntiglioso e molesto in fatto di precisione lessicale e correttezza ortografica: non a caso mi fanno correggere le bozze di falcemartello, che infatti contiene meno refusi di qualsiasi altra pubblicazione militante.
L’incipit del romanzo è suggestivo: un personaggio descrive l’ambiente in cui si trova – la sala di attesa di un commissariato – soltanto attraverso le impressioni olfattive. Un bel pezzo di bravura. La cura per la forma in effetti è il tratto essenziale del testo, al punto da esserne anche il significato di fondo: l’importante è la correttezza formale, tutto il resto non conta. Al punto che, in pratica, il romanzo non ha neppure un intreccio che si possa definire tale: i protagonisti svolgono delle azioni – un piano criminale per eliminare i nemici della lingua – senza che compaia alcun antagonista, nessun ostacolo da superare, nessun percorso. Narrativamente un nonsenso che, più che originale, finisce molto presto per diventare noioso. Il libro in sostanza è un susseguirsi di monologhi e dialoghi eruditi, con tanto di insopportabili note a pie’ pagina (sia pure “romanzate”). Il messaggio non è poi nemmeno molto paradossale, è semplicemente puerile e cattivo: i protagonisti finiscono per realizzare il loro piano di far esplodere delle bombe a una fiera di paese (che chissà perché simboleggia i nemici della lingua), muore un sacco di gente e il capobanda viene condannato a morte.
Molto meglio Ibra.