Distratto dalle vicende catalane, soltanto adesso, tra un ultimatum e un tentativo di prendere tempo, riesco ad accodarmi alla discussione che ha accompagnato l’uscita al cinema di Dunkirk. Ci tengo però a scriverne, perché il film di Nolan, oltre a essere straordinario dal punto di vista tecnico, tocca una tematica che mi appassiona, quella del rapporto fra individuo e collettività.
La storia la conosciamo tutti: il disperato tentativo di salvataggio delle truppe britanniche (e francesi) bloccate dall’offensiva tedesca sulla spiaggia di Dunkerque nelle fasi iniziali del secondo conflitto mondiale. Nolan la racconta da tre angolazioni: la spiaggia, dal punto di vista (di uno) dei soldati intrappolati; il mare, con gli occhi di un ragazzo a bordo della barca del padre, una delle centinaia lanciate nella missione di soccorso attraverso la Manica; il cielo, attraverso gli occhialoni di un pilota della RAF impegnato nella copertura aerea dell’esodo. A ogni punto di osservazione – ci spiega la legenda nelle primissime scene – corrisponde una scala temporale differente: sulla spiaggia l’azione si svolge in una settimana, in mare in un giorno e in cielo in un’ora.
Il sovvertimento delle unità aristoteliche è quasi una costante nell’opera di Nolan, che ci ha costruito sopra i suoi film più significativi: Memento, Inception e Interstellar. Inception è il parente più stretto di Dunkirk a livello formale, con la differenza che nel primo i piani temporali sono concentrici mentre qui sono montati in parallelo. Le tre “tracce”, che ci vengono mostrate nel montaggio alternato, cominciano in realtà in punti diversi del tempo reale: il progressivo avvicinarsi delle linee temporali scandisce le tappe delle tre sotto-trame e la crescita dei protagonisti, fino al climax che corrisponde al punto in cui i piani si congiungono, poco prima della fine del film.
Anche più che nei lavori precedenti, il meccanismo dello sfasamento temporale in Dunkirk non è però soltanto un espediente formale, ma ha una funzione espressiva e narrativa importante. Il progressivo avvicinarsi dei tre piani occupa, nella progressione della vicenda e nel ritmo della narrazione, il ruolo in cui normalmente si colloca l’antagonista. Che qui infatti è totalmente impersonale, quasi invisibile, appena accennato dentro la carlinga dei bombardieri tedeschi o fuori dalle lamiere di un’imbarcazione spiaggiata dalla marea. L’originalità di Nolan sta soprattutto nell’aver girato un film di guerra in cui il nemico è una presenza immanente, che c’è sempre ed è ovunque ma non si vede mai. Questo tratto è alla base del senso di angoscia che caratterizza ogni scena, e che rappresenta evidentemente il senso di Nolan per la guerra: “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie“.
Sono molto d’accordo con la lettura che del film ha dato Wu Ming 4 nel suo commento (quello sì tempestivo e sul pezzo) in cui ha evidenziato una suggestiva corrispondenza tra l’angolazione scelta da Nolan per raccontare la guerra, l’assedio da parte di forze brutali senza volto, e il mondo odierno caratterizzato dalla stessa angoscia, la stessa sensazione collettiva di trovarsi nella stiva buia di una nave alla deriva che potrebbe affondare da un momento all’altro (una delle immagini più potenti del film).
Diversi detrattori, in Italia e all’estero, hanno proposto un’interpretazione guerrafondaia o razzista di questa metafora in cui (semplificando) a essere assediata sulla spiaggia sarebbe la civiltà europea, minacciata dall’invasione di orde di immigrati. Ma la risposta che giunge dal racconto di Nolan, il messaggio inequivocabile con cui si chiude la sua narrazione, mi sembra totalmente incompatibile con questa lettura à la 300. Dunkirk, in effetti, è la storia di un salvataggio collettivo riuscito soltanto grazie a uno slancio di altruismo di massa. E’ il racconto di una sconfitta, in cui però è la solidarietà a mostrare la strada per una vittoria ancora di là da venire. E’ un messaggio di speranza, ma con l’ammonimento che da questo disastro si esce solo tutti insieme, “nessuno deve rimanere indietro“. Nulla a che vedere con la grettezza del “noi contro gli altri” che ha suggerito qualcuno.
Benché la questione sia solo accennata, è significativo anche che lo sforzo collettivo che conduce al salvataggio di duecentomila persone avvenga contro le intenzioni dei leader. Churchill, ci viene detto, non intende inviare il grosso della marina britannica e si accontenterebbe di riportare a casa trentamila soldati. Il suo famoso discorso al Parlamento viene letto senza nessuna enfasi, nella scena finale del film, da uno di quei ragazzi che è sopravvissuto nonostante gli ordini del capo del governo.
Nolan non è (politicamente) un rivoluzionario e sarebbe ingiusto attendersi una presa di posizione più netta, un’identificazione più smaccata – col rischio oltretutto di ottenere un effetto didascalico. Il suo però rimane un messaggio importante e davvero progressista. Il confronto con il “chi salva una vita salva il mondo intero” viene spontaneo: Spielberg, come Churchill e soprattutto per giustificare Churchill, si sarebbe accontentato di riportare a casa i trentamila soldati e avrebbe terminato il film con un’enorme bandiera britannica al vento. Nolan invece spiega che se non si prova per davvero a salvare tutti quanti, alla fine non si salverà nessuno.