Su FantasyMagazine c’è il mio commento a Gli ultimi Jedi. Qui ho scelto l’immagine più pucciosa del film per squallidi fini di click-baiting. Grazie a Emanuele Manco per l’ospitalità e per gli spunti di riflessione. Ripropongo il testo anche qui di seguito.
C’eravamo lasciati con lo sguardo muto e intenso di Luke Skywalker e una valigia piena di interrogativi: il secondo capitolo sanerà i difetti del primo? Riuscirà ad affrancarsi ulteriormente dal peso della trilogia originale senza stravolgerne lo spirito? I personaggi, e soprattutto il promettente ma infantile Kylo Ren, diventeranno finalmente adulti?
Io non ho dubbi: sì, sì, sì.
Il successo della nuova trilogia va misurato sulla sua capacità di mantenere un difficile equilibrio tra l’aderenza stilistica rispetto all’originale e la capacità di innovarne il contenuto. Il rischio di fallire, complici i quarant’anni trascorsi dal primo Star Wars, è molto alto: come rimanere fedeli alla tradizione senza limitarsi a fare un semplice remake? Come d’altra parte introdurre temi nuovi senza tradire lo spirito dell’originale? Del resto non è proprio qui che era caduto miseramente lo stesso George Lucas con i suoi prequel, tanto ambiziosi nei contenuti quanto sballati nella forma?
La soluzione esplorata da J.J. Abrams (stavolta nelle vesti di produttore esecutivo) consiste nel costruire sulle spalle della trilogia originale e del suo immaginario una nuova storia, un nuovo immaginario adatto ai tempi in cui viviamo e in grado di parlare alle giovani generazioni di oggi. Il merito principale de Gli ultimi Jedi risiede nell’efficacia con cui persegue questo progetto, sviluppando coerentemente stile e tematiche de Il risveglio della Forza ma rimanendo chiaramente nel solco dei film classici.
Sul modello de L’Impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi, anche il film di Rian Johnson si sviluppa lungo tre sottotrame ben distinte: una con protagonista Rey, principale antagonista Kylo Ren, mentore riluttante Luke; una con al centro Poe Dameron e le vicende dalla flotta ribelle in fuga dal Primo Ordine del farsesco generale Hux; la terza più movimentata con Finn e Rose da un lato e una successione di avversari dall’altro, fino allo scontro finale con il capo degli assaltatori, Phasma. Solo alla fine, nella migliore tradizione, le tre linee si intrecciano con la riunificazione di tutti i personaggi principali.
A mio giudizio Il difetto principale de Gli ultimi Jedi (a parte l’orribile e inquietante Carrie Fisher che vola nello spazio) probabilmente è che l’intera sottotrama di Finn e Rose, benché utile per lo sviluppo dei personaggi e carica di significato simbolico (al punto di essere ripresa nella suggestiva chiusura del film) sembra non avere sostanzialmente nessuna funzione nello sviluppo della storia – quantomeno della storia raccontata in questo film: se anche i due non fossero mai partiti per la loro missione, il finale sarebbe stato verosimilmente identico. Intendiamoci, nulla che possa davvero disturbare lo spettatore: in fondo, secondo Amy in The Big Bang Theory, anche il personaggio di Indiana Jones sarebbe totalmente irrilevante nella vicenda de I predatori dell’Arca perduta.
Non sono entusiasmanti nemmeno molti collegamenti dall’una all’altra delle linee narrative, più spesso del tollerabile introdotti da un personaggio che si chiede dove si trovi qualcun altro («Dov’è Rey?» chiede Finn a Poe; «Dov’è Han?» domanda Luke a Chewbecca; «Dove saranno quei due?» si chiede Poe a proposito di Finn e Rose): il risultato è un ritmo a tratti un po’ farraginoso, specialmente nella prima metà del film.
Ma nell’insieme i pregi superano di molto i difetti, e sono legati al modo in cui viene trattato il materiale originale e alle tematiche che vengono affrontate.
Il fallimento dei Maestri
Come nel Risveglio, la ripresa stilistica della trilogia classica avviene attraverso la riproposizione degli schemi narrativi e, specialmente nella prima parte del film, mediante la messa in scena di sequenze molto simili a quelle dei film originali: il tentativo è di introdurre un significato nuovo mediante la modifica di singoli elementi che modificano o ribaltano del tutto il senso della scena rispetto all’originale. In confronto al film di Abrams, però, il meccanismo qui è notevolmente più raffinato. Prendiamo ad esempio la scena dell’uccisione del Leader Supremo Snoke, che è sotto ogni punto di vista il fulcro del film e dell’intera trilogia: qui sostanzialmente vengono montate in ordine cronologico inverso rispetto agli originali due scene riprese rispettivamente dai finali de L’Impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi. All’inizio della sequenza Kylo Ren conduce davanti a Snoke la giovane Rey, che si è lasciata catturare perché come Skywalker “vede del buono” in lui; come Darth Vader, Ren effettivamente si rifiuta di calare la spada su Rey e uccide invece il Leader Supremo, quindi chiede alla ragazza di unirsi a lui per governare insieme la galassia, ma Rey rifiuta. È bastato rovesciare l’ordine delle due azioni del villain e collocarle non alla fine ma nel cuore della narrazione per conferire alle due scene, formalmente ricalcate su quelle dei film classici, una valenza completamente diversa: grazie a questo ribaltamento viene espresso, declinato in modo particolarmente brutale, uno dei concetti più forti di questa trilogia, già introdotto nel primo capitolo: i Maestri hanno fallito, per crescere occorre emanciparsi e cercare delle strade nuove. Allo stesso tempo, anche in questa veste ribaltata la scena è cucita con lo stesso filo della trilogia originale: Kylo Ren in fondo fa esattamente quel che avrebbe fatto Darth Vader se Luke avesse accettato, alla fine dell’Impero, di unirsi a lui.
Da qui in poi la strada di Ren si separa, forse definitivamente, da quella di Vader: prosegue così in modo credibile il personale viaggio dell’eroe del principale antagonista, proprio come mi auguravo alla fine del Risveglio.
Guerra non fa nessuno grande
La rappresentazione della guerra mi sembra uno degli aspetti interessanti e moderni del film.
Nella trilogia classica, la guerra era descritta in modo sostanzialmente manicheo, con i buoni senza macchia intenti a combattere un impero di uomini-macchina. Nei prequel invece si trattava di fatto di una impostura apparecchiata dal Signore Oscuro dei Sith per il suo tornaconto personale, una messinscena in cui stupidi Jedi non erano che marionette vestite da ufficiali. Ufficiali ben poco riluttanti tra l’altro, a dispetto dell’ammonimento del Maestro Yoda: «Guerra non fa nessuno grande»: l’immotivato tradimento di questo precetto, del resto, era forse l’aspetto più spiacevole dell’intero progetto dei prequel.
Ci sono voluti quindici anni e Rogue One per restituire significato alla frase di Yoda, conferendo alla rappresentazione della guerra un duplice realismo: da una parte, la guerra è una cosa sporca, dolorosa, orribile; dall’altra, però, è necessaria perché gli oppressi si liberino dal giogo degli oppressori. Questo è quello che tutti avevamo sempre capito ascoltando il pupazzo verde nella palude.
C’è molto del fortunato spin off nella guerra descritta ne Gli ultimi Jedi, sia nelle vicende di Poe Dameron che in quelle di Finn e Rose. Da un lato, nella rappresentazione particolarmente cruda (per essere Star Wars) del sacrificio e del dolore che comporta. Dall’altro, soprattutto, nella descrizione delle incertezze, degli errori, dei tradimenti nello stesso campo della Resistenza. Nell’ora più buia, quando ogni speranza sembra perduta nella base assediata dal Primo Ordine, un appello viene inviato agli “alleati nell’Orlo esterno”: ma nessuno risponde, nonostante il messaggio sia accompagnato dalle credenziali personali di Leia. A restare in silenzio sono verosimilmente quegli stessi “alleati” che in Rogue One, davanti alla minaccia della Morte Nera, proponevano la resa all’Impero e la diserzione dalla Ribellione. Disertori non mancano neppure sulla stessa flotta inseguita dal generale Hux: come riferisce Rose, “già in quattro hanno tentato di salire sui gusci di salvataggio oggi” (senza contare lo stesso Finn).
Nel film di Rian Johnson però c’è di più. Se in Rogue One a salvare la giornata era pur sempre l’eroismo di un pugno di martiri, ne Gli ultimi Jedi si scopre invece – attraverso uno dei notevoli colpi di scena della seconda parte del film – che il vero eroismo in certi casi non è far fuori un super-incrociatore del Primo Ordine costi quel che costi, ma sopravvivere oggi per poter poterlo raccontare domani, conservare “la scintilla che appiccherà il fuoco che consumerà il Primo Ordine”, quando i rapporti di forza lo consentiranno.
È significativo che siano personaggi maschili (Poe e Finn) quelli che faticano di più a comprendere questo principio, mettendo a rischio addirittura la sopravvivenza della Resistenza; ed è significativo che siano personaggi femminili a impartire a questi due “eroi” la lezione che entrambi, alla fine, impareranno: Leia, l’ammiraglio Holdo, Rose. Questo splendido articolo pubblicato su denofgeek.com approfondisce, con parole migliori delle mie, l’argomento della rappresentazione della “virilità tossica” attraverso il confronto “competent women vs. emotionally-challenged men”. Tra i temi principali del film, questo è uno di quelli che conferisce all’opera una grande modernità, senza dimenticare tuttavia che anche questo concetto affonda le sue radici nella trilogia classica, nella principessa Leia che sulla prima Morte Nera sbeffeggia gli “eroi” che sono venuti a salvarla e prende in mano la situazione perché «la pelle deve salvarcela qualcuno!»
Non tutto l’odio vien per nuocere
“Rabbia, paura, violenza: sono loro il Lato Oscuro”, spiegava Yoda a Luke ne L’Impero colpisce ancora. Ne La minaccia fantasma aveva ammonito suo padre, ancora bambino, che “la paura porta all’ira, l’ira all’odio, l’odio conduce alla sofferenza: la paura è la via per il Lato Oscuro”.
Nella trilogia classica questo concetto era assoluto: se l’odio era esclusivamente appannaggio del male, a disposizione dei buoni rimaneva solo l’amore “evangelico”. Nei prequel l’insegnamento dei Jedi si spingeva oltre: ogni forma di attaccamento avrebbe dovuto essere vietata. In effetti proprio questo divieto, e l’impossibilità/ingiustizia di rispettarlo, era il principale motore dell’intera storia e sostanzialmente l’unica motivazione della parabola di Anakin.
Ne Gli ultimi Jedi, il personaggio di Rose introduce un messaggio diverso e più articolato. Certamente rimane l’avversione verso l’odio che è figlio della paura, a cui viene esplicitamente e giustamente contrapposto non un generico “amore universale”, ma proprio quell’amore che è attaccamento: «Vinceremo questa guerra non combattendo ciò che odiamo, ma salvando ciò che amiamo», spiega a Finn dopo aver sventato il suo atto di verosimilmente inutile eroismo, appena prima di baciarlo.
Chi è guidato da questo tipo di odio è rappresentato in modo grottesco: il generale Hux pare uscito da Balle spaziali, il super-villain Snoke fa la figura dell’imbecille e lo stesso Kylo Ren, per quanto cresciuto rispetto al Risveglio, si copre di ridicolo quando si lascia trascinare dall’odio nei confronti del vecchio maestro Luke e del padre Han Solo (per metonimia impersonato dal Millennium Falcon). Certe scene sembrano perfino eccessive, ma in tempi di Trump (o di Salvini), escalation nucleari, muri più o meno virtuali per escludere i poveri dal mondo dei ricchi, di revival fascisti, etc., forse anche il ridicolo ha diritto di cittadinanza.
Ma è sempre Rose a mostrare che c’è un altro tipo di odio che invece è giusto: è quello figlio dell’indignazione contro l’ingiustizia e l’oppressione. Nella sequenza sul pianeta-casinò si può cogliere una lezione sul funzionamento del capitalismo: la ricchezza di pochi si basa sullo sfruttamento di molti. A differenza che nei prequel, i capitalisti non sono marionette nelle mani dei Sith, ma al contrario sono i burattinai che muovono i fili. La guerra perciò è anche guerra di classe (nonostante lo squallido cinismo di Benicio Del Toro cerchi di svilire il concetto). Ecco perché l’odio degli oppressori è rappresentato in modo ridicolo, mentre quello degli oppressi produce gesti nobili: una dicotomia che ricorda la duplice rappresentazione della violenza di Quentin Tarantino in Django Unchained.
L’estrema semplificazione con cui viene trasmesso non sminuisce il valore del messaggio (è Star Wars, non un film di Ken Loach). Chissà che una generazione di ribelli contro questo sistema sociale ed economico non verrà ispirata anche dall’immagine che chiude il film: il bambino che impugna la scopa come fosse una spada laser e mostra al cielo stellato l’anello con il simbolo della Resistenza.