Ho già usato la canzone di Francesco Guccini in un articolo sui treni dei pendolari: “Un treno tutti i giorni passava per la sua stazione“. Era febbraio 2010, insieme alla mia amica e compagna di pendolarismo Cristina Castagnola scrissi un pezzo per il terzo numero di Bonarda che iniziava così:
Avesse dovuto aspettare un treno pendolari sulla tratta Pavia-Milano, l’eroe de La Locomotiva di Guccini sarebbe ancora vivo.
Nell’articolo denunciavamo lo stato catastrofico in cui versava il trasporto pubblico su rotaia condannando decine di migliaia di pendolari, nella sola Lombardia, a costosi viaggi della speranza quotidiani. La situazione non è migliorata da allora: il costo di biglietti e abbonamenti aumenta, il servizio peggiora – come apprendo, anche se non sono più pendolare da tre anni, direttamente dagli amici e dal gruppo dei viaggiatori pavesi su Facebook. Tutto questo è visibile a chiunque prenda il treno.
Il disastro ferroviario di ieri mette in luce anche i peggioramenti normalmente invisibili: impegnati a investire su nuove tratte ad alta velocità, spesso eliminando le alternative più economiche alle Frecce, i padroni delle infrastrutture ferroviarie e delle carrozze trascurano la manutenzione delle reti che servono i treni pendolari. “Tanto – scrivevo – i pendolari il treno lo devono prendere lo stesso, anche se cade a pezzi e non arriva mai.”
Per quanto sia una bella canzone, non ho mai simpatizzato eccessivamente con l’anarchico protagonista de La locomotiva di Guccini. Bisogna riconoscere però che la sua idea di utilizzare la locomotiva come una bomba contro l’ingiustizia era perlomeno figlia di un ideale nobile. Oggi sono i signori di cui parla quel brano a usare il treno come un’arma micidiale contro i lavoratori, e lo fanno per perpetuare l’ingiustizia: per il profitto.
Al di là di quello che deciderà la magistratura, le responsabilità per i morti di ieri sono chiare. Solo la nazionalizzazione del trasporto pubblico sotto il controllo di chi ci lavora e degli utenti potrà impedire nuove tragedie.