Quando ho iniziato a frequentare i giudici del lavoro, nel 2005, non era già sicuramente vero (ammesso che mai lo fosse stato) che i lavoratori fossero in qualche modo avvantaggiati rispetto ai datori, né tantomeno che vincessero sempre. Tuttavia, era prassi abbastanza comune che, quando perdeva la causa, il lavoratore non fosse comunque condannato a pagare le spese legali dell’azienda vincitrice: le spese venivano quasi sempre “compensate”. Questo perché una norma processuale, rimasta sostanzialmente invariata fin dal 1865, consentiva al giudice di derogare al principio base per cui “chi perde paga” in tutti i casi in cui ravvisasse giusti motivi. Giusto motivo era considerata innanzitutto la condizione di svantaggio del lavoratore rispetto al datore: in sostanza, il frequente (ma comunque non automatico) esonero del lavoratore soccombente dal pagamento delle spese legali in favore del datore era considerato un mezzo per garantirgli l’accesso alla tutela dei propri diritti, liberandolo dal timore di esporsi a gravi spese in caso di esito negativo del giudizio.
Nel 2009, l’ultimo governo Berlusconi cambiò una prima volta la norma, sostituendo i giusti motivi tali da consentire la compensazione delle spese con “gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione“. Per la mia diretta esperienza, posso dire che i giudici già in servizio all’epoca della riforma continuarono in larga misura a compensare le spese in caso di soccombenza del lavoratore, spesso specificando nella motivazione che la deroga al principio generale era connessa alla condizione delle parti. Tra i giudici più giovani, invece, cominciarono ad aumentare i casi di condanna del lavoratore a pagare le spese di lite in favore del datore di lavoro. Non era ancora una prassi generale però, e si poteva continuare a rispondere ai lavoratori, quando chiedevano quali fossero i rischi di una causa che comunque ritenevamo fondata, che quello della condanna alle spese era un rischio tutto sommato relativo.
Come in altri campi più sostanziali, anche su questo terreno processuale dove non era arrivato il centrodestra si spinse però il centrosinistra nel 2014, modificando ulteriormente la regola: la compensazione delle spese veniva consentita soltanto in due ipotesi ben precise: la assoluta novità della questione trattata e il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. In pratica, da quel momento la condanna alle spese del lavoratore soccombente è diventata, da ipotesi eccezionale, conseguenza quasi automatica, con l’ennesimo rovesciamento degli equilibri precedenti a svantaggio della parte debole del rapporto di lavoro.
Lo scopo della riforma ovviamente era ridurre il contenzioso. Nel campo del diritto del lavoro, ridurre il contenzioso significa diminuire le volte in cui un lavoratore cerca di far valere i suoi diritti, affrontando già ogni sorta di ostacoli, economici e psicologici. Lo scopo è stato decisamente raggiunto: in questi ultimi anni, abbastanza spesso ho visto anche lavoratori che partivano molto convinti fermarsi di fronte al rischio di perdere, con la causa, l’equivalente di un paio di stipendi. E attenzione: il rischio di perdere c’è in ogni causa, anche in quelle che appaiono più fondate, dal momento che spesso è impossibile conoscere in anticipo tutte le carte in tavola.
Bene, da oggi si torna indietro almeno di un pezzetto: la Corte Costituzionale ieri ha dichiarato illegittima la riforma del 2014 nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese anche quando sussistano altre gravi ed eccezionali ragioni. In pratica, si torna alla modifica del 2009, che è meglio di niente. Questo non significa affatto che il vento stia girando: la corrente continua a spingere nella direzione di una compressione sempre maggiore dei diritti, sostanziali e formali, dei lavoratori in favore dello sfruttamento e del profitto. Per invertirla sarà necessario ben altro che qualche sentenza! Ma intanto un primo pezzetto, piccolo ma non trascurabile, delle controriforme del governo Renzi finisce nello sciacquone e possiamo festeggiare, sobriamente, il ritorno di un minimo di civiltà.