Di solito non amo commentare norme di legge in assenza di un testo ufficiale e, almeno a oggi, il Decreto Dignità non solo non è stato pubblicato ma non è nemmeno ancora giunto sulla scrivania del Presidente della Repubblica (e non è neppure detto che su quella scrivania non trovi la sua tomba). Visto il clamore mediatico intorno al provvedimento, annunciato ormai una settimana fa, ho deciso però di fare un’eccezione.
Specie per quanto riguarda le norme in materia di lavoro, come sempre, la disinformazione sui contenuti del decreto regna sovrana, alimentata del resto dalla convergenza tra la propaganda del Movimento 5 Stelle e gli attacchi di Confindustria, concordi (solo) nell’attribuire alla “riforma” effetti dirompenti: se Luigi Di Maio parla di “colpo mortale al precariato” vantandosi di aver “licenziato il Jobs Act”, Confindustria strepita che sarebbero a rischio centinaia di migliaia di posti di lavoro.
Siamo davvero davanti a una riforma epocale? Spoiler: no.
Le norme raggruppate sotto l’enfatico titolo di Misure per il contrasto al precariato riguardano principalmente i contratti a tempo determinato e le sanzioni per licenziamento illegittimo.
Per i contratti a termine, la “novità” principale consiste nel ripristino dell’obbligo di indicare la causale dell’assunzione a tempo determinato in tutti i casi in cui il contratto ha durata superiore a un anno, e in tutti i casi di rinnovo (ma non di proroga) anche prima dello scadere dell’anno. Quest’obbligo, inizialmente previsto per tutti i contratti a termine, era stato escluso per quelli di durata inferiore a un anno dalla riforma Fornero (luglio 2012) e successivamente eliminato del tutto dal decreto Poletti (marzo 2014). La progressiva liberalizzazione ha reso le assunzioni a termine ormai molto più numerose di quelle a tempo indeterminato, con prevalenza dei contratti di breve durata: secondo gli ultimi dati Istat, oltre un terzo dei contratti a termine attivati lo scorso anno aveva durata inferiore al mese, mentre appena uno su cinque ha scavallato l’anno di vita. È soltanto a questi ultimi contratti che si applicherà l’obbligo di indicare la causale.
La vera platea dei beneficiari della riforma dunque è, per scelta del governo, molto ridotta e verosimilmente destinata a ridursi ulteriormente.
Le ulteriori modifiche rispetto all’impianto del decreto Poletti e del Jobs Act non spostano il quadro: sono la riduzione della durata massima complessiva dei contratti da trentasei a ventiquattro mesi e quella del numero di proroghe da cinque a quattro. Ma anche qui è difficile immaginare effetti concreti positivi. È invece positivo l’ampliamento del termine per impugnare i contratti, da 180 a 270 giorni, benché non sia chiaro se, in caso di una successione di rinnovi, il termine valga per ciascun singolo contratto o solo dalla scadenza dell’ultimo.
È rimasta invece nel cassetto la più volte promessa abolizione dello staff leasing, ossia dei contratti di lavoro in somministrazione a tempo indeterminato, un’ulteriore escamotage per tenere i lavoratori precari e sotto ricatto.
Lungi dal rappresentare un argine efficace alla precarietà, dunque, l’effetto congiunto delle modeste modifiche rischia anzi seriamente di essere un’ulteriore accelerazione del turn over e una generale riduzione della durata media dei contratti.
Ma il vero problema è che, per quei pochi che potranno fare causa e ottenere l’assunzione a tempo indeterminato, il destino continua a riservare un contratto a tutele crescenti, ossia un’altra forma di precarietà.
Dopo aver promesso in campagna elettorale che avrebbe reintrodotto l’articolo 18, infatti, Di Maio ha invece confermato in toto l’impianto del Jobs Act del governo Renzi: in pratica, nei casi in cui il giudice accerta che il licenziamento è illegittimo, il licenziamento rimane comunque valido, e il lavoratore riceve un risarcimento pari a due mesi di stipendio per ogni anno di anzianità. Così era, così è rimasto.
Il decreto modifica l’importo del risarcimento minimo, che passa da quattro a sei mesi di stipendio, e l’importo del risarcimento massimo, che passa da ventiquattro a trentasei mesi. Essendo rimasto identico il meccanismo di calcolo del risarcimento (due mesi per ogni anno lavorato), gli unici lavoratori su cui incide l’aumento del minimo sono quelli assunti da meno di tre anni: dunque, per tutti gli assunti nel 2015 (anno del boom di contratti a tutele crescenti grazie agli incentivi contributivi) che sono sopravvissuti fino a oggi alla mannaia del licenziamento, non cambia letteralmente niente di niente. Non che per gli assunti da meno di tre anni la situazione sia molto diversa: il deterrente per i datori di lavoro rimane pressoché nullo.
Paradossalmente ancora inferiore è l’impatto dell’aumento dell’importo massimo: infatti, essendo mantenuto il meccanismo della proporzionalità tra entità del risarcimento e anzianità di servizio (due mesi per ogni anno) per beneficiare dell’aumento bisognerebbe prima essere assunti da più di dodici anni! I primi benefici potrebbero essere tangibili solo nel 2027, e a goderne sarebbero comunque solo i pochi “sopravvissuti” a dodici anni di lavoro nella stessa azienda. Per ottenere 36 mesi di risarcimento, invece, bisognerà attendere sei anni in più, il 2033. Qualcuno potrà obiettare che si tratta di una riforma nel lungo periodo. Ma, come diceva John Maynard Keynes, “nel lungo periodo siamo tutti morti“.
L’unica eccezione riguarda una categoria comunque non marginale di lavoratori, quelli degli appalti (ad esempio nella logistica): qui infatti il risarcimento si calcola in base all’anzianità sull’appalto, a prescindere dalla successione degli appaltatori, e ci sono già oggi lavoratori con più di dodici anni di anzianità. Sospetto che chi ha scritto il decreto non ci aveva pensato, ma ci penseranno in Parlamento a metterci una pezza.
In conclusione, si può proprio dire che la montagna ha partorito il topolino. L’operazione del governo, qui nella sua componente pentastellata, è quella classica di dare un contentino ai lavoratori (che hanno votato in massa M5S) sostanzialmente a costo zero per il padronato. La realtà è che semplicemente non si può davvero contrastare la precarietà se non si ripristina l’architrave che sorreggeva l’intero sistema fino al 2012: l’articolo 18 dello Statuto nella sua versione pre-Fornero, con l’obbligo di reintegrazione in tutti i casi di licenziamento illegittimo.
L’alzata di scudi di Confindustria si spiega un po’ con il gioco delle parti, ma soprattutto con il timore che concessioni pur minime, dopo una lunga stagione in cui i diritti sono stati sempre e soltanto cancellati, possano convincere la classe lavoratrice che “si può fare” e spingerla a premere per rivendicare di più.
Dati questi presupposti, è irresponsabile chi, da sinistra, parla di “inversione di tendenza” e suggerisce un’apertura di credito nei confronti del governo. Occorre invece denunciare i colossali limiti del Decreto Dignità, sfruttare le contraddizioni che aprirà nel governo, e saper cogliere e dar voce alle speranze che comunque alimenterà tra i lavoratori.