Rieccomi.
Mentre ero via hanno convertito in legge il Decreto Dignità: ecco il testo aggiornato con le modifiche introdotte in Parlamento, entrate in vigore il 12 agosto. Ho già espresso le mie osservazioni, perlopiù critiche, sull’efficacia (assai modesta) della riforma; ora vale la pena riassumere le nuove regole, in particolare su contratti a termine e in somministrazione, per capire quali diritti si possono fare valere, quando e come.
Contratti a termine
Per i contratti stipulati dopo il 14 luglio 2018, data di entrata in vigore del decreto, si applicano le nuove regole: il rapporto a tempo determinato non può durare più di 24 mesi, durante i quali, a prescindere dal numero di rinnovi, sono consentite non più di 4 proroghe. Se il contratto dura più di 12 mesi deve contenere la causale, ossia il motivo per cui è a termine e non a tempo indeterminato; se il contratto originario dura meno di 12 mesi ma una proroga (ossia una modifica della scadenza di quello stesso contratto) comporta il superamento dei 12 mesi, allora la proroga deve contenere la causale. I rinnovi (che sono in tutto e per tutto nuovi contratti) invece devono contenere la causale anche se non superano i 12 mesi dalla prima stipula.
Facciamo un esempio. Vi hanno fatto un contratto a termine il 1° settembre 2018, e scade il 31 marzo 2019; il contratto non contiene alcuna causale. Quando scade possono:
- prorogarlo, ossia modificarne la scadenza senza che il rapporto di lavoro si interrompa neppure formalmente. Se la proroga è entro il 31 agosto 2019, non sono obbligati a indicare la causale; se invece la proroga è oltre il 31 agosto, è necessario che sia indicata la causale: se non c’è potete chiedere al giudice che converta il rapporto di lavoro trasformandolo a tempo indeterminato, e che condanni il datore di lavoro a pagarvi un risarcimento compreso fra 2,5 e 12 mesi di stipendio. Oppure
- rinnovarlo, ossia stipulare un nuovo contratto. In questo caso deve esserci un’interruzione di almeno 20 giorni prima del nuovo contratto (perché il primo durava più di 6 mesi) che dovrà contenere la causale a prescindere dalla sua scadenza, e dunque anche se complessivamente il rapporto non superasse i 12 mesi. Se manca la causale, o se non è rispettato il periodo di interruzione (ma questo valeva pure prima), potete impugnare il contratto e pretendere un contratto a tempo indeterminato e un risarcimento.
Quali causali sono valide? La legge prevede due ipotesi:
- esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
- esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
Nel contratto o nella proroga queste esigenze dovranno essere descritte in concreto, non essendo di sicuro sufficiente limitarsi a trascrivere le formule astratte previste dalla norma. Ovviamente, oltre a essere scritte, queste esigenze dovranno esistere anche nella realtà: in caso di contestazione, spetterà al datore di lavoro dimostrarne la sussistenza davanti al giudice.
Tutto questo, si diceva, per i contratti stipulati dopo l’entrata in vigore del decreto, 14 luglio 2018. Per chi ha un contratto stipulato prima del 14 luglio, invece, per il momento non cambia nulla, rimangono le regole del Jobs Act: durata massima (comprensiva di proroghe e rinnovi) di 36 mesi, nessuna necessità di indicare la causale, possibilità di prorogare la scadenza cinque volte, nessun limite ai rinnovi salva la necessità di uno stacco tra la scadenza di un contratto e l’inizio del successivo (10 giorni di interruzione se il contratto scaduto era inferiore ai sei mesi, altrimenti 20 giorni).
La versione originaria del decreto prevedeva che le nuove regole si applicassero a tutte le proroghe e ai rinnovi intervenuti dopo il 14 luglio. Al momento della conversione in legge, il 12 agosto, il governo ha ceduto almeno in parte alle pressioni di Confindustria e stabilito che, per i contratti già in vigore al 14 luglio, proroghe e rinnovi seguiranno le vecchie regole fino al 31 ottobre. Solo da novembre scatterà l’obbligo della causale in caso di rinnovo o di proroga con superamento dei 12 mesi, nonché il diritto alla trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro nel caso vengano complessivamente superati i 24 mesi di contratti.
Per tutti, il termine per impugnare i contratti illegittimi è di 180 giorni dalla scadenza di ciascun contratto: la riforma ci ha regalato due mesi di tempo in più per decidere.
Contratti di lavoro in somministrazione
Per i contratti tramite agenzia di lavoro (gli “interinali” di una volta) le regole sono in parte diverse.
Non si applica intanto la norma relativa al numero massimo di proroghe, che rimangono quelle previste dal contratto collettivo delle agenzie di somministrazione: sei per ciascun contratto. Dopo la sesta proroga, l’agenzia di regola farà un nuovo contratto, ma senza necessità, a differenza che nei contratti a termine, di un periodo di stacco tra l’uno e l’altro. Valgono invece le regole relative alla durata massima di 24 mesi e all’obbligo di causale dopo i primi 12 mesi con la stessa agenzia (apparentemente, ma bisognerà aspettare l’interpretazione dei giudici, anche in caso di impiego presso diversi utilizzatori) così come in caso di rinnovo.
Si pone il problema delle conseguenze nel caso in cui il contratto con l’agenzia superi i 24 mesi o sia stipulato senza causale oltre i 12 mesi: il lavoratore ha diritto alla conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ma di quale rapporto si parla, quello con l’agenzia o quello con l’utilizzatore (ossia con l’azienda presso cui il lavoratore è stato inviato)? La legge è scritta in modo francamente incomprensibile e infatti ci sono già pareri discordi da parte degli interpreti: anche qui l’ultima parola la detteranno i tribunali, ma personalmente trovo più convincente (benché molto meno conveniente) la prima ipotesi: dunque rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’agenzia di somministrazione.
Si potrà invece chiedere di essere assunti direttamente dall’impresa utilizzatrice in caso di sforamento del limite percentuale di assunzioni in somministrazione presso la stessa azienda: complessivamente presso uno stesso datore di lavoro i lavoratori assunti direttamente a termine e somministrati dalle agenzie non possono superare il 30% dei dipendenti assunti a tempo indeterminato. Questa è una delle novità positive del decreto, anche se in concreto dubito troverà ampia applicazione.
E per i licenziamenti?
In caso di licenziamento illegittimo, cambia ben poco:
- chi è stato assunto prima del 7 marzo 2015 continua ad avere l’articolo 18 (se lavora in un’azienda con più di 15 dipendenti);
- chi è stato assunto dopo il 7 marzo 2015, se viene licenziato ingiustamente, ha diritto salvo casi particolari soltanto a un risarcimento pari a 2 mesi di stipendio per ogni anno di anzianità presso quel datore di lavoro: sono le “tutele crescenti”. L’importo è dimezzato se il datore di lavoro ha meno di 16 dipendenti.
Per chi ha diritto soltanto alle “tutele crescenti”, cambia solo la quota minima del risarcimento: era di 4 mesi di stipendio prima, adesso è di 6 mensilità (3 se il datore ha meno di 16 dipendenti) . In pratica qualche piccolo beneficio va soltanto a chi è stato assunto da meno di tre anni. Ma le regole rimangono le stesse introdotte dal governo Renzi.
In conclusione
Non è granché questo Decreto Dignità. Quel poco che viene, però, cerchiamo di conoscerlo e utilizzarlo quando è possibile!