La Corte Costituzionale, con un comunicato stampa, ha annunciato ieri di aver ” dichiarato illegittimo l’articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n.23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte – non modificata dal successivo Decreto legge n.87/2018, cosiddetto “Decreto dignità” – che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato.”
Con un tratto di penna la Corte ha cancellato il meccanismo delle “tutele crescenti”, cardine del Jobs Act. La regola giudicata illegittima funziona così: quando il giudice ritiene ingiusto un licenziamento, esclusi i (pochi) casi in cui è previsto il ripristino del rapporto di lavoro, il lavoratore ha diritto a un risarcimento proporzionato alla durata del rapporto: 2 mesi di stipendio per ogni anno, con un minimo di 4 e un massimo di 24. Questa regola vale per tutti i licenziamenti motivati da (inesistenti) ragioni oggettive (riduzione o riorganizzazione dell’organico, etc.), oltre che in alcuni casi di licenziamenti disciplinari, e si applica a tutti gli assunti da marzo 2015: perciò, anche se il massimo era di 24 mesi di stipendio (diventati 36 con il Decreto Dignità), *nessuno* ha potuto ottenere finora un risarcimento di più di 7 mensilità. Questo perché il meccanismo – e in questo risiede la sua perversione – non prevede alcuna possibilità per il giudice di valutare caso per caso quanto sia grave l’illegittimità, e dunque di aumentare eventualmente la misura del risarcimento sia pure entro il tetto massimo previsto.
Era proprio questo che delle “tutele crescenti” piaceva alle imprese: da un lato che crescevano poco, più lentamente di quanto impiegassero loro a licenziare chi non volevano più in azienda, e dall’altro che in ogni caso qualsiasi licenziamento era un rischio calcolabile al centesimo. Bastava inventarsi una qualsiasi motivazione oggettiva e si poteva già sapere quanto sarebbe costato anche nel caso in cui il lavoratore avesse fatto causa: comunque poche migliaia di Euro.
La differenza rispetto al regime della riforma Fornero era considerevole: un assunto nel marzo 2015 poteva essere licenziato nel settembre 2018 pagandogli 7 mesi di stipendio; uno assunto a febbraio 2015 invece poteva costare, se il licenziamento fosse stato ritenuto illegittimo, fra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità.
Non serve aggiungere che era abissale anche la differenza tra il regime Fornero e quello dell’articolo 18 nella sua versione originaria: chi fosse stato licenziato ingiustamente, per qualsiasi ragione anche puramente formale, e anche se fosse stato in servizio da pochi mesi, avrebbe ottenuto la reintegrazione nel posto di lavoro o, a sua scelta, non meno di 20 mesi di stipendio.
La Corte Costituzionale non mette in discussione risarcimenti minimi e massimi, né tantomeno l’abolizione della reintegrazione – che del resto risale alla riforma Fornero (come avevo spiegato qui), ma soltanto l’assenza di discrezionalità in capo al giudice: in qualche modo si limita a proteggere il ruolo della magistratura, e certamente non si tratta di agitare la sentenza come una bandiera rossa. Mancando ancora le motivazioni della pronuncia, è anche difficile prevedere che cosa succederà adesso: rimarranno i minimi e i massimi previsti dalla legge attuale (6 e 36 mesi) lasciando al giudice la possibilità di stabilire l’entità del risarcimento volta per volta? Se così fosse, si può star certi che il governo correrebbe a restringere la forbice, probabilmente sia in basso che in alto, per non aumentare l’alea del rischio per i padroni. Ci sarebbe però anche un bel problema d’immagine a ridurre il tetto del risarcimento pochi mesi dopo aver fatto finta di alzarlo!
Certo è che la sentenza infligge al Jobs Act, con poche righe, un colpo ben più pesante di quanto avesse fatto il Decreto Dignità, che infatti la Corte ha ritenuto completamente inutile a sanare l’illegittimità delle “tutele crescenti”. È anche curioso che il primo vero colpo contro il Jobs Act sia stato sferrato non da una mobilitazione di massa (che la CGIL ha sostanzialmente sabotato in questi anni) ma da un pugno di avvocati e di giudici: in questa fase sembra essere nei tribunali la punta più avanzata della lotta di classe in Italia. Ma è solo questione di tempo prima che la classe lavoratrice rialzi la testa e s’infiammi per riconquistare i diritti perduti, a partire dall’articolo 18 pre-Fornero. Chissà che questa sentenza non possa essere la scintilla.