Nel maggio scorso, sei rider di Foodora avevano fatto causa davanti al Tribunale di Torino per sentirsi dichiarare lavoratori subordinati, o quantomeno per ottenere che al loro rapporto di lavoro (coordinato e continuativo, ma formalmente non subordinato) venisse comunque applicata la disciplina del rapporto subordinato, in applicazione di una norma contenuta nel Jobs Act. Avevano perso.
Non si sono arresi però, e hanno fatto ricorso in appello. La Corte d’Appello di Torino, qualche giorno fa, ha accolto parzialmente il loro ricorso, dichiarando
ex art. 2 d.lgs. 81/2015 il diritto degli appellanti a vedersi corrispondere quanto maturato in relazione alla attività lavorativa da loro effettivamente prestata in favore dell’appellata sulla base della retribuzione, diretta, indiretta e differita stabilita per i dipendenti del V livello del CCNL logistica trasporto merci.
Non sono ancora state pubblicate le motivazioni della sentenza, ma si può già fare qualche valutazione. La Corte d’Appello non ha riconosciuto l’esistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato. A differenza del giudice del primo grado, però, ha ritenuto applicabile la norma, introdotta dal Jobs Act, che prevede che “a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.”
La conseguenza è che ai lavoratori spetta lo stesso trattamento retributivo previsto dai contratti collettivi per attività analoghe: minimo tabellare, tredicesima, ferie, permessi, malattia, TFR. Foodora, che nel frattempo in Italia è stata acquistata da Glovo, perciò dovrà pagare tutte le differenze fra quanto i rider avrebbero dovuto percepire secondo la retribuzione stabilita dal CCNL e quanto hanno effettivamente ricevuto – meno di 5€ all’ora e senza nessun istituto contrattuale accessorio, secondo i legali.
Immagino che qualche esponente del Pd proverà ad appropriarsi di questo risultato, attribuendolo alle virtù magiche del Jobs Act. In realtà è proprio il contrario, ed è bene chiarirlo. Il Jobs Act è quello che ha reso ancora più facile stipulare contratti precari, allargando le maglie già piuttosto lasche della “legge Biagi”. Prima del Jobs Act, contratti di collaborazione coordinata e continuativa come quelli dei rider di Torino sarebbero stati dichiarati illegittimi – per mancanza di un valido progetto – e sarebbero stati trasformati dal giudice in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato: i lavoratori avrebbero avuto non solo la retribuzione dei loro colleghi subordinati, ma anche tutte le altre tutele, compreso l’articolo 18 in caso di licenziamento illegittimo. Adesso invece, pur ottenendo delle differenze retributive – che male non fanno, certo – i lavoratori non hanno potuto conservare il posto di lavoro: non essendo a tutti gli effetti lavoratori subordinati, non è stata accolta la loro impugnazione del licenziamento.
La sentenza di Torino segna comunque un punto positivo: è la prima in Italia a riconoscere almeno alcuni diritti per i rider, ed è anche la prima volta che una Corte d’Appello si pronuncia su questo tema: “una sentenza non fa primavera”, ma se questo orientamento si consolidasse, sarebbe un bel colpo contro il sistema della gig economy, che basa i suoi profitti essenzialmente sul super-sfruttamento della manodopera.
Negli ultimi anni le grandi aziende in Italia si sono abituate a non subire limiti e battute d’arresto nella loro corsa al profitto. Il governo proverà a cavalcare l’onda lunga di questa sentenza per convincerle a rinunciare a qualche briciola, in cambio di una regolamentazione del settore che, in cambio un contentino almeno simbolico ai lavoratori, possa garantire il grosso dei profitti per le imprese, evitando loro il rischio di una cascata di processi dall’esito a questo punto incerto (una prospettiva, questa dei ricorsi di massa, ipotizzata non senza angoscia dal Sole24Ore). In effetti negli ultimi tre giorni si rincorrono già le voci sull’imminente “decreto sui rider”, che vanno esattamente in questa direzione.
Non credo sia la direzione più giusta per i lavoratori. Al contrario, un accordo di compromesso verosimilmente peggiorativo rispetto a quanto ottenuto con la sentenza di Torino sarebbe la strada più deleteria di tutte. È opportuno invece sfruttare la pronuncia della Corte d’Appello come una leva per pretendere, non in tribunale ma nelle piazze, quello che nessun’aula di giustizia potrà riconoscere: l’abolizione di tutti i contratti precari – in tutti i settori – e l’estensione a tutti i lavoratori delle più ampie tutele contro i licenziamenti illegittimi.